Interviste

Pubblicato il 5 Giugno 2018 | da Valerio Caprara

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Intervista a Matteo Garrone

Matteo Garrone, sublime pittore di anime, non colleziona interpretazioni del mondo, bensì l’esplora e l’investiga nei recessi più oscuri correndo il rischio temuto da Nietzsche: “E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Stretto alla nostra città da legami profondi (napoletana è la ex compagna Nunzia madre del figlio Nicola) e all’enclave di Castelvolturno da vincoli artistici altrettanto forti, Garrone e il protagonista di “Dogman” Marcello Fonte domani saluteranno il pubblico del Metropolitan alle 20,30 e quello del Bristol Pinetamare del Villaggio Coppola alle 23.15.

Al di là della retorica d’occasione, è escluso che si tratti d’incontri promozionali qualsiasi.

“Ma certo. Napoli è una città che mi affascina per lo straordinario vitalismo e la forza espressiva della sua gente già cara a Pasolini e Fellini, ma che nel contempo sfida a non perdersi nelle sue infinite sollecitazioni. Ed è uno stimolo artistico impareggiabile quello di cercare di mettere ordine in questo caos energetico, d’individuare ogni volta una linea figurativa in sintonia con la storia che sto raccontando. Castelvolturno, poi, è per me un luogo magico… sento che in qualche modo mi vuole bene e resto sbalordito quando anche il tempo sembra accordarsi ai miei desideri. Al momento di girare la sequenza del tosacani che esce dal carcere, per esempio, la luminosità dei giorni precedenti s’è mutata all’improvviso in una sinfonia di grigi e il sopraggiungere di un temporale ha reso pressoché naturale il passaggio da aperto e allegro a chiuso e cupo dello stato d’animo del protagonista. Un feeling totale che ha fatto anche in modo che le riprese si concludessero poco dopo 6 settimane anziché nelle 8 previste”.

Però Napoli e il funesto dibattito sull’immagine “sporcata” dai film gomorriani stavolta per fortuna non c’entrano.

“Ah no, di Napoli, come di Roma dove si svolse l’abominio del canaro, in “Dogman” c’è solo un sentore lontano. Niente localismi di comodo, qui trionfa un non-luogo che diventa vero in quanto riflessione sulle paure, le difficoltà delle reazioni umane, le scelte che si rivelano sbagliate o meglio ancora sul ritrovarsi imprigionato in un meccanismo a cui si era estranei. Quello di una violenza che circola nell’aria, viene assorbita a poco a poco e infine inevitabilmente deflagra scioccando persino i cani feroci chiusi in gabbia”.

Un approccio da western di frontiera o, se preferisci, da favola nera alla Basile.

“Proprio così. Il mio Marcello non ha più niente a che fare con la cronaca di una vecchia barbarie. L’ho ripetuto in modi che saranno sembrati autistici a tanti tuoi colleghi: insieme a Chiti e Gaudioso abbiamo ridisegnato ex novo tutti i personaggi e il canaro è diventato ai nostri occhi e spero anche a quelli del pubblico una sorta di moderno Buster Keaton, un mimo del cinema muto. Per intenderci ho usato un linguaggio comunicativo diverso da quello delle narrazioni televisive di Franca Leosini, che pure come te conosco e ammiro. Del resto la mia formazione è pittorica e al massimo posso aggiungerci l’influenza del tennis a cui ho a lungo creduto di dedicare vita e carriera: alludo alla componente agonistica, la cui dinamica in fondo si ricrea spesso sul set”.

Respingi, insomma, le affinità con “Cane di paglia”.

“Adoro quel film, ma per “Dogman” ho sempre previsto uno sviluppo opposto e forse proprio per questo ho tenuto a bagnomaria per dodici anni l’idea di trasporre il fattaccio. Qualcuno ha evocato, sbagliando, anche “Un borghese piccolo piccolo” ma io sono, invece, molto geloso e felice dell’idea che sono riuscito a concentrare nella realizzazione del film. Il cui pathos sta soprattutto negli sforzi fatti da Marcello per resistere al male, per non farsi contagiare dalla violenza, per gestire l’insano rapporto col bestiale Simoncino, per essere amato dalla sia pure degradata comunità in cui sopravvive; tanto che persino nel momento della tremenda catarsi tenta di curare il suo persecutore ferito a morte e s’illude che le cose possano tornare come prima fuoriuscendo dal meccanismo difensivo che ha stritolato la sua mitezza. Qui la chiave potrebbe semmai stare nelle “Memorie del sottosuolo” e nella sottile fascinazione per il più forte che Dostoevskij sa insinuare nella sua geniale mappa umana”.

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