Pubblicato il 5 Giugno 2018 | da Valerio Caprara
0Lazzaro felice
Sommario: Marchesa indegna sfrutta ignavi mezzadri e l'"idiota sapiente" Lazzaro sembra diventare l'emblematico martire della cattiveria umana. All'improvviso lo scenario cambia e nella seconda parte della fiaba gli stessi personaggi hanno acquisito nuove sembianze. Resta identica, però, se non peggiorata la condizione degli ultimi e i diseredati della società (dis)umana.
1.3
Ottemperato il compito di segnalarlo a uno spettatore consapevole, soprattutto se adepto delle ideologie della decrescita, “Lazzaro felice” non può usufruire di bonus artistici solo perché mena un fendente alla società dei consumi e ai suoi virus repressivi. Sul filo di un tono magico e stralunato e un ecologismo basico modello “ragazzo della via Gluck”, infatti, il film della Rohrwacher si serve della finta ingenuità della parabola per promuovere una ferrea campagna di redenzione del mondo in forma di Truman Show in cui tutti noi vivremmo senza renderci conto del suo orrore. Lo stesso (ri)sentimento che soffiò sul cinema dell’ultimo Olmi (“Centochiodi”, “Il villaggio di cartone”) qui vibra in sintonia con la candida ottusità del protagonista, apostolo involontario degli emarginati, i dannati, gli ultimi che dall’aspro ma onesto lavoro spaccaschiene nei campi sarebbero stati trapiantati nel torbido magma del sottoproletariato urbano (in Italia non è andata affatto così, ma la licenza poetica va ammessa). Il nostro “idiota sapiente”, interpretato dall’inedito Adriano Tardiolo che possiede le espressioni e le movenze perfette per il ruolo, subisce nella prima parte le angherie della marchesa Alfonsina alias Nicoletta Braschi in Benigni anch’essa a suo agio nelle vesti di perfida latifondista e del marchesino (nomen omen) Tancredi in grado negli anni ‘90 di fare credere a lui e altri schiavi di vivere in una realtà ottocentesca da telenovela messicana.
Dato atto del bel colpo di scena che cambia tempo e luogo della seconda parte e conferisce nuovi volti ai vecchi personaggi, l’unico a restare identico è proprio Lazzaro che in un contesto ancora più degradato e incattivito continuerà, a dispetto dell’ulteriore rarefazione di fatti, ritmo e suspense a cercare di dimostrare come la bontà, il bene, l’innocenza senza alcun fine o promessa di ricompensa dovrebbero avere -e invece puntualmente non ce l’hanno- un posto fisso nella storia dell’umanità. L’asse creativo dell’autrice poggia su uno stile volutamente svariante, destrutturato, erratico e una fotografia scurita e un po’ sgranata che comunicano un certa logica e una certa suggestione, ma hanno poi il torto di fare apparire il film non tanto scombinato –il che potrebbe anche impreziosirlo- quanto sfocato e irrisolto. Non si vuole negare credito alle lodi che hanno spinto “Lazzaro felice” sul podio della migliore sceneggiatura a Cannes, ma il fatto è che la “biodiversità dello sguardo” e l’epicedio della civiltà contadina tutta sana povertà, pagliericci in comune e zampognari sull’uscio rischiano di diventare imbarazzanti alla concreta resa dello schermo. Specialmente se tutti i nobili discorsi si riducono al the end alla nostalgia per un’arcadia in cui al posto della luce elettrica bastava quella della luna e, al contrario dei lazzari, i lupi sapevano distinguere i buoni dai cattivi.
LAZZARO FELICE
Regia: Alice Rohrwacher.
Con: Adriano Tardiolo, Luca Chikovani, Nicoletta Braschi, Sergi Lopez, Alba Rohrwacher
Drammatico/Fantastico. Italia, 2018