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Pubblicato il 19 Aprile 2016 | da Giuseppe Cozzolino

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OLD REVIEWS: Sentieri Selvaggi (1)

Proseguiamo la  nostra Rubrica  dedicata a schede e recensioni dei film dei nostri Corsi, a cura degli Allievi di SAPER VEDERE IL CINEMA. Oggi tocca ad Antonio Cardellicchio, con il suo brano dedicato a “Sentieri Selvaggi” di John Ford

EMOZIONE EPICA
The Searchers di John Ford

Rivedo questo capolavoro, mi immergo nel suo stile, tanto esatto quanto evocativo, e mi rigenero come spettatore.

Un film d’azione serrata, di spazi e di rocce, di cavalli e cavalieri, di coraggio, tenacia, avventura della libertà, carico di struggimento e nostalgia. Ogni inquadratura e sequenza, con perfezione di segno e pienezza di senso, nell’unità compatta del film, aggiunge un alone mitico, un’irradiazione sensoriale, un sovrasenso. Quasi una cinepresa romantica che riprende una natura umanizzata e uomini naturalizzati. Con l’introduzione esemplare di Valerio che ha mostrato nuove dimensioni e consolidato emozioni e giudizi già provati. The Searchers  non solo si conferma sempreverde e vitale, ma lo vediamo cresciuto nel tempo e nella memoria. Si, i classici camminano in avanti, essi, come sosteneva M.Bachtin grande critico russo per le opere letterarie, crescono, nella rilettura, nella riflessione-commento, nella trasmissione delle generazioni, nella coscienza stilistica.

Ethan Edwards resta a lungo nel nostro immaginario: un Ulisse senza Penelope che, fatta giustizia, riparte da Itaca e ricomincia un’odissea; un capitano Achab che forse va alla ricerca di un’altra balena bianca. Ethan e Martin che ricercano, ostinati e coraggiosi, la bambina rapita dai selvaggi per cinque lunghi anni, nelle stagioni del sole ardente e della neve, sono una commovente avventura di umanità e fedeltà alle proprie radici e ai propri valori, in un viaggio per una giustizia estrema, senza misericordia e perdono. Un itinerario americanissimo, che esprime volontà e capacità di iniziativa e di autogoverno degli individui e delle piccole comunità dei pionieri del Far West. Senza rivendicare nulla al governo. In quella tipicità tutta americana, fatta di spirito d’iniziativa, concorrenza e cooperazione volontaria libera. Quel self-help ammirato da Tocqueville e celebrato da Walt Whitman, secondo il quale il genio degli Stati Uniti non risiede nei suoi governi ma nella gente comune, animata da un insopprimibile attaccamento alla libertà e la loro inclinazione per il nuovo, con: “l’aria di persone che non hanno mai provato cosa voglia dire stare in riga davanti ai superiori – il piacere che traggono dalla musica, il più sicuro sintomo di tenerezza virile e di intrinseca finezza d’animo.. la loro buona tempra e la loro generosità – la grandissima importanza che annettono alle elezioni – il Presidente che si scopre il capo davanti a loro, e non loro davanti a lui – tutto ciò è poesia non in versi. Ciò attende una gigantesca e generosa elaborazione che sia degna di loro”.

Il cinema di John Ford appunto. Non certo a caso queste parole di Whitman si trovano in uno studio critico di John Baxter su John Ford.

Ford rappresenta il tema della ricerca della Terra Promessa, nel mito di una frontiera mobile, con un sentimento biblico vitale e attuale. Terra vergine trasformata da un’ardita iniziativa e da un duro lavoro in campi coltivati, diritto inalienabile di proprietà, terra benedetta. Per questo il massacro, la distruzione della fattoria del fratello di Ethan, insieme al rapimento, è un atto barbaro, inaudito, mostruoso, imperdonabile. Sete di giustizia anima Ethan e Martin, al di là dei loro contrasti e della tendenza da parte di Ethan, nel suo carattere bipolare, a cadere in una sorta di vendetta simmetrica al nemico.

Nel magnifico finale, quando Ethan solleva la ragazza divenuta indiana, riconosce finalmente in essa non tanto la nipote quanto la figlia di Marta, l’unica donna forse un tempo amata.

Segni biblici sono presenti nella loro tipicità americana: il negro si chiama Mosè, il fratello del protagonista è Aaron, il nome stesso di Ethan ha assonanze bibliche; poi la figura del reverendo rappresenta con la sua Bible consunta quel diffuso populismo religioso, anche irriverente, individualista, anarchico, che Ford, di origine irlandese cattolica, ha scoperto nel costume americano.

La coscienza artistica di Ford è molto elevata, per costruire un’arte popolare ma, proprio per questo, nobile, eletta, nella costante conquista di una compiutezza formale, la sola degna di una creazione umanistica libera. Il nome d’arte che si diede è quello di un drammaturgo inglese del Seicento, l’elisabettiano John Ford, uomo dell’età scespiriana.

Nella mia esistenza questo gigante dell’arte del cinema è stato e resta il più idiomatico personale, fin dall’adolescenza. Il mio Omero dello schermo, colui che ha dato un immaginario inconfondibile ad alcuni miei sogni e alle mie confuse aspirazioni di libertà e giustizia. Come a milioni e milioni di esseri umani, nel mondo intero.

I suoi film, nel loro vivente splendore, hanno un’attualità perenne e il fascino dell’irripetibile.

(Antonio Cardellicchio)

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