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Pubblicato il 22 Aprile 2022 | da Valerio Caprara

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Catherine Spaak: il 1960 e l’adolescenza al potere

Fu a lungo abbastanza logico –anche se non troppo esatto- attribuire a Catherine Spaak le caratteristiche della ninfetta, dell’incarnazione nostrana del cosiddetto “lolitismo”. Ma a ben vedere i precocissimi esordi dell’attrice scomparsa la sera del 15 aprile, rendendo costernati e depressi i coetanei baby boomers che erano stati i suoi primi fans naturali, proponevano un personaggio alquanto differente ovvero quello della ragazza medio-alto borghese dal volto semplice e lo sguardo da gatta, in grado di suscitare con gli spontanei atteggiamenti maliziosi un’irresistibile appeal senza dovere trasmettere una consapevole morbosità. Il successo clamoroso di “I dolci inganni” di Lattuada uscito proprio nel 1960, l’anno della terza rinascita del cinema italiano (dopo il neorealismo e l’eterogeneo fervore dei Cinquanta), spinge subito schiere di sedicenni a imitare la sua pettinatura e il suo modo sobrio ed elegante di vestire: la protagonista Francesca dopo essersi concessa a un maturo amico di famiglia si accorge di avere compiuto uno sbaglio, ma poi non ne fa un dramma perché è stata solo ferita e nient’affatto “sporcata” come prevedeva la morale corrente dell’epoca. La delicata alchimia seduttiva, che non ha niente a che vedere con i modelli attuali in cui l’erotismo risulta quasi sempre inversamente proporzionale alla volgarità esorbitante di espressioni e fisici, riceve un’accelerazione immediata in “Diciottenni al sole” di Mastrocinque, un inno oggi struggente alla fine del lungo dopoguerra, l’apoteosi vacanziera con il juke-box e i nuovi hit, il sole ischitano e il ritmo del twist (canta Jimmy Fontana, musica di Morricone) nelle flessuose movenze della parigina i cui top bianco, pantaloni alla caprese e scarpette col fiocco tramandano la giovinezza di una nazione e una generazione.

Tra il ’63 e il ’64 -è importante precisarlo- non c’è contraddizione tra i trionfi ravvicinati del cinema italiano autoriale –vincono premi dovunque De Sica, Fellini, Visconti- e la forza, la varietà, la spregiudicatezza dei film che ruotano attorno al sole della commedia e traggono linfa vitale dagli ipotetici piani alti diventandone nel contempo l’humus più ricco e la garanzia dell’estrema solidità del comparto. Catherine è inimitabile –mentre si forgia il carattere attraverso le vicissitudini di una vita privata tutt’altro che quieta- come figlia del vulcanico Gassman in “Il sorpasso”, come la ragazzina che fa perdere goffamente la testa al quarantenne Tognazzi in “La voglia matta” o come la collezionista di amori di “La parmigiana” che ha il coraggio di scegliere dopo le amare disillusioni una vita di solitudine nel segno di un atteggiamento del tutto autonomo “più istintuale che morale” (una battuta di dialogo che potrebbe trasformarsi in didascalia riassuntiva). Spingendosi ancora più in là, però mantenendo sempre l’aplomb morbido, musicale, suadente, in “La noia”, trasposizione dal romanzo di Moravia firmata Damiani, è Cecilia che da un oscuro passato piomba nell’anima e la carne del pittore Dino a cui si mostra in una sequenza diventata celebre nuda e ricoperta solo da uno strato di biglietti di banca. Allora un bersaglio di cattolici e politici sessuofobici, oggi probabilmente improponibile per gli arcigni controllori del femministicamente corretto. Dalla seconda metà della decade i suoi personaggi si distaccano da una grazia erotica di fatto incendiaria per reggere la sfida di una serie di commedie più audaci  e asprigne, da “Una ragazza piuttosto complicata” a “La matriarca” e “Adulterio all’italiana”. A noi piace ricordarla, prima del suo passaggio alla tv e le commedie musicali, nel ruolo della finta ingenua Matelda, contesa tra Gassman e Volonté in uno degli scorci più irridenti del campione d’incassi “L’armata Brancaleone” (’66) di Monicelli: il film che era un capolavoro, ma ben pochi “esperti” lo avevano capito.

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