Recensioni

Pubblicato il 8 Gennaio 2023 | da Valerio Caprara

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UN VIZIO DI FAMIGLIA***/CLOSE*

Segue dibattito. Magari fosse ancora così, con gli spettatori l’un contro l’altro armati al termine delle proiezioni in sala, salotto o cineforum. Aggrappati a questo sogno destinato a svanire alla luce dei riscontri del box-office, segnaliamo “Un vizio di famiglia” (“L’origine du mal”) che intende suscitare in tonalità asprigne e sarcastiche una riflessione sui malesseri delle famiglie alto borghesi e le implicazioni domestiche della lotta di sesso e di classe. Il film, infatti, inizia e prosegue come una sorta di thriller sociale mettendosi sulle tracce dell’operaia vittima di sfratto Stéphane (Calamy) che rintraccia il padre industriale Serge (Weber) che l’aveva abbandonata da piccola e si reca a trovarlo nella sua villa sontuosa restando presto impigliata nelle bugie e i segreti di una famiglia disfunzionale. Il vecchio indebolito dalla malattia simpatizza con la devota e timida nuova arrivata, ma l’areopago femminile –moglie, figlia, nipote e donna di servizio- che lo assedia non solo diffida di lei, ma lascia via via trapelare personalità velenose e interessi feroci costringendo chi guarda a cambiare continuamente prospettive, congetture, sensazioni e opinioni.  Il partito preso del regista e sceneggiatore francese Marnier regge la suspense sino al finale soprattutto grazie alla qualità ineccepibile delle recitazioni, a cominciare da quella della Calamy (pluripremiata oltralpe ma nota in Italia soprattutto grazie alla serie tv “Chiami il mio agente!”) a suo perfetto agio nel ruolo di cartina al tornasole dell’arroganza e il cinismo che nel santuario kitsch del patriarca dilagano e implodono. Il modello abilmente replicato da Marnier è chiaramente quello del connazionale Chabrol analista della borghesia di provincia (da “Stéphane, una moglie infedele” e “Il tagliagole” a “L’amico di famiglia”) per l’odio riversato sui ricchi borghesi mummificati dal denaro e incapaci di nascondere sotto il tappeto delle buone maniere i propri veri e laidi incentivi. Peccato che la sua impostazione nichilista e poco incline all’affilato distacco del maestro non s’accontenti di deplorare il sistema, ma l’invogli a praticare l’arma dell’eccesso per rendere il puzzle irriscattabile e denunciare la tossicità di qualsiasi potere se non dell’intera umanità destinata per natura a praticare il male. Per perlustrate l’opacità, insomma, nel film tutto diventa lapalissiano, trasparente. La ricetta vincente del noir psicologico funzionava, invece, all’opposto: chiaroscurare le inquietudini incombenti, anziché evidenziarle e non manifestare ribrezzo nei confronti anche dei più loschi tra i propri personaggi.

L’opera seconda del belga Dhont, Grand Prix della giuria a Cannes, si pone sulla scia dei più classici e amati film sul tema della sessualità dei ragazzi al momento della scivolosa e conturbante fase del passaggio all’adolescenza. I tredicenni Léo e Rémi di “Close” sono presentati come amici per la pelle, uniti da propensioni, abitudini e aspirazioni simbiotiche e invasi da un sentimento di complicità assoluta nei confronti del mondo. Quando, però, entrano in una nuova scuola l’infelice frase di una compagna provoca senza volerlo esiti a dir poco dirompenti: il primo si allontana mano a mano dall’amico cercando di affermare la propria autonomia e la propria virilità in tutti gli hobby e i comportamenti, mentre il secondo più introverso precipita in uno stato d’animo smarrito e angosciato. Stilisticamente scorrevole e omogeneo e fotografato con grazia simbolista, il film si giova della naturalezza di tutti gli interpreti sempre supportata dai dialoghi congrui e attendibili; purtroppo, però, non mancano le debolezze che nella prima parte si limitano all’overdose d’estetizzanti corse dei protagonisti tra i prati o in bicicletta e nella seconda s’accentuano spingendo il pedale del patetico e perdendo via via il controllo della cautela opportunamente usata in precedenza per non strattonare materiali così delicati. Nell’intensificarsi delle metafore un po’ troppo esplicative fa, insomma, capolino la tentazione di attribuire il sorgere della mascolinità unicamente alle convenzioni/coercizioni societarie anziché alla natura biologica. Un ammiccamento trendy a cui il Truffaut di “I 400 colpi”, per fare solo un esempio, non sarebbe mai ricorso.

 

UN VIZIO DI FAMIGLIA

THRILLER PSICOLOGICO – FRANCIA/CANADA 2022 

Un film di Sébastien Marnier. Con: Laure Calamy, Doria Tillier, Jacques Weber, Dominique Blanc, Suzanne Clément, Céleste Brunnquell

 

CLOSE

DRAMMATICO – BELGIO/OLANDA/FRANCIA 2022 

Un film di Lukas Dhont. Con: Eden Dambrine, Gustav De Waele, Émilie Dequenne, Léa Drucker, Igor van Dessel, Kevin Janssens

 

 

 

 

 

 

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