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Pubblicato il 26 Ottobre 2020 | da Valerio Caprara

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Ugo Tognazzi – Trentennale della morte

Siena, settembre 2003. Dino Risi guida a tarda sera un manipolo di festivalieri rivolgendo sfottò a tutti compreso il critico entusiasta ma freddoloso all’eccesso. Conquistato un tavolo al ristorante la sua verve non si spegne ma, anzi, propone quiz a getto continuo in un crepitio di erre arrotate alla francese: qual è il film più bello? Qual è quello più sopravvalutato? Qual è l’attrice più bella? Qual è l’attore più cane? Al momento, però, d’ipotizzare la classifica dei big della commedia all’italiana, eccolo rindossare i panni del maestro e sorprendere i commensali mettendo al primo posto Tognazzi (anziché Gassman, amico fraterno e alter ego sullo schermo) per i valori trasgressivi connessi al suo talento. A trent’anni dalla morte dell’attore (27 ottobre 1990, ad appena sessantotto anni) quel parere estemporaneo acquista un altro smalto perché il glorioso figlio di Cremona viene sì celebrato, però tentando di occultare alcune delle prerogative su cui vita e carriera si sono fondate quasi per intero. Ecco pertanto un taccuino utile per dare i voti non solo ai riscontri della bravura e del successo, ma anche ai livelli di “scorrettezza” di scelte, gusti e approcci che nel clima odierno gli assicurerebbero grossi guai dentro e fuori l’ambito artistico.

La rivista e la tv (bravura e successo 8/scorrettezza7). Si perde spesso il ricordo della lunga gavetta in palcoscenico che, partendo dalle macchiette e le caricature dei varietà alla “Bocca baciata” o “Cento di queste donne”, gli ha permesso di arrivare al traguardo di un Molière con Missiroli e un Pirandello recitato a Parigi in francese con gli attori della Comédie. Sottovalutazione per fortuna evitata nei confronti delle esperienze in Tv culminanti nelle sei stagioni (1954-1959) del mitico show “Un, due, tre” condotto in coppia con Raimondo Vianello e diventato a giudizio unanime uno dei top dell’umorismo autarchico.

Il rapporto con le donne (9/9). Non osiamo pensare al processo ideologico che alcune intellettuali pre e post #MeToo potrebbero intentare alla biografia amorosa dell’attore “dal collo corto e il rotondo testone padano” (Bertolucci, che lo diresse in “La tragedia di un uomo ridicolo”). Non tanto per quanto riguarda la famiglia allargata e riunita di una convivente, due mogli e quattro figli con cui ha trascorso periodi bellissimi, ma per l’inesausta dedizione ai piaceri della carne che ha, del resto, esplicitato nei continui travasi tra la vita reale e i voyeuristici tour de force sullo schermo.

Comicità e politica (8/9). Sostanzialmente apolitico e restio a intrupparsi nei cortei dei cinematografari democratici e progressisti, Tognazzi, censurato in passato dalla tv democristiana per un innocuo sberleffo all’allora Presidente della Repubblica Gronchi, si prestò volentieri al celebre falso scoop del settimanale satirico “Il Male”. La cui prima pagina che nel ‘79 lo immortalava in manette sotto il titolo a caratteri cubitali “Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR” diede la stura a un dibattito sul “diritto alla cazzata” (ipse dixit), rivelatasi purtroppo tutt’altro che tale quando nell’83 arrivò l’ora del martirio di Enzo Tortora.   

Lo stile (9/8). Tognazzi, lo riconoscono ormai anche i superstiti della critica impegnata, ha affinato ma mai rinnegato l’innato istinto da guitto, lo ha modellato sull’evoluzione degli ingaggi e ha raggiunto una padronanza del mestiere che non ha meritato per caso una sfilza di premi nonché indotto l’Università e il Comune cremonesi a fondare un archivio in cui è recuperata un’ingente mole di materiali che lo tramandano. In onore di uno stile che Tullio Kezich definì come quello “della capacità di ridere di tutto” o “dell’eleganza sino nel pecoreccio”.

Il divertimento dello stare al mondo (10/10). Il ricordo dell’attore non è patrimonio solo degli esperti. Anzi diremmo che sulla sua indiavolata vitalità, le sue battute e la strenua volontà di ricavare da ogni situazione il massimo del godimento l’ultima parola spetta di diritto alla corte di amici, parenti, colleghi, bisboccioni, scrocconi e imbucati che non smise mai di convocare e sui quali dominava con la chiassosa autorità di un re carnascialesco. Forse l’unico comico, insomma, che prim’ancora di divertire gli altri, si sforzava di divertire sé stesso: sotto l’egida di un edonismo e un goliardismo senza complessi si pongono, infatti, il culto pantagruelico del cibo e dell’arte culinaria e lo svolgimento dei mitici e accaniti tornei di tennis al Villaggio Tognazzi.   

I film (10/10). Il culto non prevede paletti. Ma come la mettiamo, appunto, con i misuratori del politicamente corretto? Si può correre qualche pericolo di scomunica, in effetti, preferendo le commedie all’arsenico come “Il federale” “I mostri”, “La marcia su Roma”, “La voglia matta”, “Il magnifico cornuto”, “In nome del popolo italiano” o quelle grassocce come “Il petomane” o il “Satyricon” (in cui è il Trimalcione più credibile apparso su uno schermo) ai capidopera girati con Ferreri e Azcona (da “L’ape regina” a “La donna scimmia”, da “L’udienza” a “La grande abbuffata”) e ad “Amici miei”, “Il vizietto” e “Splendori e miserie di Madame Royale” (tribunali dei gay permettendo) o magari confessando come il sottoscritto d’essere disposti a inginocchiarsi davanti alle pizze di “Venga a prendere il caffè da noi” e “La stanza del vescovo”.

 

 

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