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Tirassegno: i migliori e i peggiori del 2024
Lo spettatore è sovranista. Nel senso che ha diritto a esprimere sui film il proprio inappellabile giudizio. Prende una cantonata, però, quando si lascia andare alle stantie polemiche del qualunquismo tuttologico contro i critici che non la pensano come lui: che esista una differenza di gusto e di sensibilità fra chi ha familiarità col cinema e coloro che ci vanno per svago o quando capita è naturale. Possedendo gli strumenti ogni film si presta a più letture ed è inevitabile che i giudizi siano diversi e a volte diametralmente opposti. I critici fanno d’altronde un mestiere che non deve ottenere il benestare dell’utente, bensì costituirsi come strumento di riflessione, crogiolo delle idee, voce libera in dialettica con altre voci libere. Anche perché ci si ritrova ormai sempre più spesso impigliati nella Rete che tutto lo scibile cinematografico ingloba, deforma, sminuzza, impasta e digerisce, una babele mediatica in cui qualsiasi opera sembra effimera e reversibile e ognuno può esternare in totale irresponsabilità i suoi gusti, le sue elucubrazioni, i suoi rancori o la sua megalomania. Dunque talvolta i critici sono più liberi di quegli spettatori che si pensano tali solo perché asserragliati nella comfort zone del mi piace/non mi piace e succede persino che oggi, finalmente, una buona parte di essi non si faccia prendere da crisi isteriche al cospetto dei risultati del box-office. Il quale per il 2024, in attesa di conteggiare gli incassi di Natale, incorona campione “Inside Out 2”, sequel d’animazione che nonostante non replichi la genialità del prototipo è di gran lunga migliore dei consimili (da “Oceania 2” a “Cattivissimo me 4”, da “Kung Fu Panda 4” a “Mufasa: il Re Leone”) predominanti nella top ten. In cui rientrano, peraltro, anche l’ottimo “Dune – Parte 2” e il dignitoso “Il gladiatore 2” nonché il boom da “pubblicità progresso” del nostrano “Il ragazzo dai pantaloni rosa”. Solo “Parthenope”, che in fondo dialoga soprattutto con chi di cinema ne mastica eppure con sette milioni e mezzo d’incasso tallona il podio, è un fenomeno a parte e può sfilarsi elegantemente dal nostro scherzoso tirassegno.
MIGLIORI. “GIURATO NUMERO 2”: Nessun segnale di stanchezza, nessun languore nostalgico, nessun puntiglio autoriale: scandito da un taglio registico classico, terso e conciso, il legal thriller del novantaquattrenne Eastwood pone problemi e non lancia messaggi e tiene avvinti senza l’aiuto di trucchi ed effetti.
“LE DÈLUGE – GLI ULTIMI GIORNI DI MARIA ANTONIETTA”: Elegante e raffinato come in Italia ce ne sono oggi pochissimi, ma anche emotivamente intenso e intellettualmente libero ricostruisce circostanze cruciali della Rivoluzione Francese che tutti conoscono eppure tiene col fiato sospeso come un thriller dall’esito imprevedibile.
“PERFECT DAYS”: Wenders, che ha sempre filmato peripli geografici ed esistenziali, li riformula adesso come se lo slancio giovanile del road movie si fosse ridotto a un tragitto minimalista, approdando alla contemplazione zen per potere guardare il mondo con cui ha fatto pace “così com’è”.
“ANORA”: Incurante dei diktat bigotti del politicamente corretto, per questa commedia sotto anfetamine o thriller con risvolti demenziali ciò che è alienante non sono i piaceri dei bagordi e del sesso, bensì l’obbligo del lavoro e la rigidità dell’ordine sociale.
“LA MISURA DEL DUBBIO”: Giallo giudiziario all’antica conciso, nitido e tagliente con cui il grande Auteuil dietro e davanti l’obiettivo riesce a trasmettere l’allarmante sensazione simenoniana dell’indecifrabilità dell’animo umano.
“POVERE CREATURE!”: Glissando sull’ingrediente alla moda dell’invettiva contro il “male gaze” (l’ottica maschile eterosessuale), una sarabanda sfarzosa, folle e spudorata come i film d’autore e da festival non possono quasi mai essere.
PEGGIORI. “I DANNATI”: Versione algida e straniata del “western di pattuglia” in cui l’arrogante ripulsa della mitografia epica non riesce a imprimere pathos e credibilità neppure allo scontato messaggio pacifista.
“CONFIDENZA”: Oscure paranoie che dovrebbero denunciare (che idea nuova) ipocrisie e frustrazioni della borghesia. Col pericolo che il fiaccato spettatore denunci sé stesso per esserci cascato.
“TE L’AVEVO DETTO”: Racconta Ginevra Elkann: damazze sballate, pornostar decadute, mamme ex alcoliste, preti tossici… C’è del marcio nelle italiche dinastie altoborghesi (però a un’ereditiera la chance di fare un film non si nega mai).
“FINALEMENT!”: Non avevamo tutti i torti quando da giovani cinefili contestavamo Lelouch sulla cresta dell’onda. Il livello di questo pasticciaccio sta già nel sottotitolo: Storia di una tromba che s’innamora di un pianoforte (sic).
“DIAMANTI”: I primi piani straripano, i ralenti enfatizzano, i dialoghi sono ridondanti, troppe battute sono a effetto (“Non siamo niente ma siamo tutto, siamo diamanti”) e i finali si accumulano come le polpette della cuoca Mara Venier. Ozpetek nel suo omaggio alle mitiche sartorie d’epoca, affinché i fan facciano la ola in sala, non si perita di tagliare e cucire un ruolo anche per sé stesso.