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Pubblicato il 7 Marzo 2010 | da Valerio Caprara

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“The Hurt Locker” a Venezia 2008

Non è un film facile «The Hurt Locker», che segna il grande ritorno di Kathryn Bigelow. E c’è persino qualcuno (al Lido non c’è limite per la stupidità) che l’accuserà d’ambiguità bellicista per come ha affrontato i crudi risvolti della tragedia irakena. E invece proprio nell’evitare le trappole dello spettacolo a effetto e del romanzesco a tutti i costi e nel mantenersi aderente alle azioni e reazioni dei personaggi (soldati di prima linea nell’inferno di Baghdad e dintorni) la regista di «Point Break» e «Strange Days» ribadisce il suo rigore stilistico. I film di guerra fanno ormai fatica ad affermarsi anche a Hollywood, perché abbondano i capidopera antichi e moderni e il pubblico non può più limitarsi a fare il tifo per i buoni o i cattivi: in questo caso, però, sulla scia di «Black Hawk Down» di Ridley Scott, il film privilegia il dettaglio all’affresco e si concentra sui particolari dell’inquadratura e sul ritmo della sequenza nel tentativo di distillare il senso allucinogeno, adrenalinico dell’impatto col nemico che ha per posta la vita o la morte.

Lo spunto deriva da un reportage del giornalista Mark Boal, che ha illustrato con straordinaria eloquenza il lavoro delle compagnie dell’esercito Usa adibite all’individuazione e al disinnesco delle bombe: mentre la popolazione subisce inaudite e immeritate violenze, i terroristi perfezionano ogni giorno in maniera più subdola e sofisticata le trappole all’esplosivo e a fronteggiarli devono essere soprattutto questi specialisti ad altissimo rischio. Il racconto è centrato sulla figura del sergente James (Jeremy Renner), un pazzo spericolato che mina la coesione del gruppo e sembra giocare alla guerriglia urbana con spirito sadomaso: tra l’orgasmo di una sparatoria, l’effimero rapporto di fiducia stabilito con uno scugnizzo, la tensione insostenibile al cospetto del viluppo di fili e detonatori che emergono come paurosi bubboni dalle auto, dai sacchetti di spazzatura o dai corpi dei kamikaze, l’uomo indurito e bestiale si sottopone a una sorta di autocoscienza forzata. Un film potente, dicevamo, che si fa apprezzare per come insegue il dramma intimistico in una cornice spaventosamente corale e come evita gli slogan dozzinali in favore di un approccio ancora più critico in quanto obiettivo. La Bigelow riesce a esplicitare un concetto che non piacerà alle anime belle, ma un po’ assomiglia al paradossale messaggio contenuto in «Trainspotting» (dove la seduzione della droga risultava micidiale perché, al suo modo distorto, piacevole): l’abitudine a giocarsi continuamente la pelle -magari armati di semplici pinze- fa sì che molti soldati si trasformino in drogati del rischio, in ossessi della violenza.

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