Pubblicato il 31 Dicembre 2022 | da Valerio Caprara
0The Fabelmans
Sommario: Sammy vive negli anni 50 con i genitori e le sorelle prima nel New Jersey e poi a Phoenix: a sei anni lo portano al cinema a vedere “Il più grande spettacolo del mondo” tra i cui grandiosi effetti speciali spicca un disastro ferroviario che lo sbalordisce, l’esalta e lo sconvolge. In principio è la 8mm del padre, subito dopo una 16 mm Arriflex e infine sono i filmini sempre meno amatoriali che accompagnano l’alter ego del regista fino agli albori della futura carriera di sciamano dell’immaginario mondiale.
4.3
Una volta ci consideravano maniaci, infantili, vaneggianti. Oggi tutt’al più inattuali, sorpassati, nostalgici. Può darsi. Ma di tutti noi baby boomer cresciuti in una fase ancora florida della settima arte è venuto in soccorso Steven Spielberg, l’unico ancora capace d’inorgoglirci e di confortarci. “The Fabelmans”, in effetti, è un epicedio struggente delle dolorose trasmutazioni che segnano il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e insieme una dichiarazione d’amore a chi ha saputo trasmetterci il senso di meraviglia che si diffonde da ciò che si vede e accade sul grande schermo e magicamente si riverbera su ciò che si vede e accade al di fuori di esso.
- Sammy è il primogenito dell’informatico Burt e della concertista mancata Mitzi, ebrei d’origine ucraina e vive con tre sorelle prima nel New Jersey e poi a Phoenix: a sei anni lo portano al cinema a vedere “Il più grande spettacolo del mondo”, il kolossal sul circo di De Mille tra i cui grandiosi effetti speciali spicca un disastro ferroviario che lo sbalordisce, l’esalta e lo sconvolge persino nei sogni. Come esorcizzare quell’ossessione? E come padroneggiare le emozioni destinate a diventare il senso della sua vita? In principio è la 8mm del padre, subito dopo una 16 mm Arriflex e infine sono i filmini sempre meno amatoriali che accompagnano l’alter ego del regista fino agli albori della futura carriera di sciamano dell’immaginario mondiale.
“The Fabelmans”, tuttavia, non ha niente dell’autobiografia tradizionale ma assomiglia a un racconto di formazione scandito da un fitto reticolo di riflessioni e intuizioni su una scala emotiva personale quanto universale in cui paura e desiderio si combinano in proporzioni instabili. Così riuscire a collegare la realtà con i sogni diventa la grande sfida che si prospetta a Sammy alle prese con l’ondivago intreccio dei rapporti sia privati –innanzitutto col padre e la madre e poi con gli altri familiari, che siano di sangue come le sorelle e lo zio Boris oppure acquisiti come l’ambiguo amico di famiglia Bennie- sia pubblici, come la prima esilarante fidanzatina e i bulli e antisemiti compagni di scuola messi in ridicolo in uno dei suoi precorritori exploit registici. Si colgono sempre di più, mano a mano che il tempo passa, il piacere e la voglia di raccontare che hanno reso Spielberg l’inventore delle immagini più folgoranti del cinema venuto prima che l’era digitale le mettesse (illusoriamente) alla portata di tutti. L’iconografia, non a caso, è la chiave di ogni scelta stilistica eseguita tenendo in equilibrio poetica e tecnica: meno patinato, più spigoloso e a tratti persino farraginoso, il narratore non smette per l’intera durata di far sì che i dialoghi bastino a sé stessi perché sempre e solo all’immagine è affidato il retroterra simbolico degli eventi. Basta tornare all’episodio da cui tutto ha inizio: Sammy/Steven non vuole possedere un trenino, ma la possibilità di replicare l’incidente mille volte e solo grazie all’immagine in movimento – motion picture come la definisce correttamente il padre- può esorcizzare lo shock o addirittura mettere in sicurezza il proprio rapporto col mondo. I metodi artigianali della messa in scena e il concetto polivalente di crescita diventano, così, espliciti anche per il non specialista grazie al suo modo naturale e fluido di alternare vere e proprie autocitazioni (il ragazzino che spiega all’amico come interpretare un reduce di guerra implica, per esempio, un omaggio alle acmi emotive di “Salvate il soldato Ryan”) alle sfumature con cui fa capire come girare i film gli sia servito per mantenere il controllo della propria vita e adesso, a settantasei anni, di onorare le affinità elettive con la madre Leah i cui capelli bianchi pettinati a caschetto sono replicati dall’ottima Williams che l’interpreta. L’intero cast, del resto, si giova dello script di Tony Kushner anch’esso accumunato dalla fede nei maestri che hanno dimostrato che per fare il regista non è essenziale quello che s’inquadra e si rappresenta, bensì come lo s’inquadra e lo si rappresenta. Truffaut senz’ombra di dubbio (che non a caso volle come attore in “Incontri ravvicinati del terzo tipo”) e poi Ford, presente per interposta persona nell’esilarante cammeo finale di David Lynch… Apertosi con DeMille, il film si conclude dunque con un altro gigante dell’età d’oro che Spielberg davvero incontrò a sedici anni: “Were’s the Horizon?”. “When the horizon is at the top, it’s interesting, when it’s on the bottom, it’s interesting. When it’s in the middle, it’s fucking boring!”. Il destino del cinema, vuol dire in pratica la battuta del mitico orbo, si gioca sulla “scelta dell’orizzonte” (deve risultare sempre in alto o in basso rispetto all’occhio della cinepresa, mai nel mezzo come fanno gli adepti del realismo e del minimalismo) cogliendo pienamente nel segno perché solo i totem dell’ex arte chiave del Novecento sono stati in grado d’indicare sino a dove è possibile spingere il nostro sguardo.
THE FABELMANS
DRAMMATICO – USA 2022
Un film di Steven Spielberg. Con Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Judd Hirsch, David Lynch