Recensioni

Pubblicato il 25 Marzo 2025 | da Valerio Caprara

0

The Brutalist

The Brutalist Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: László Tóth, architetto ebreo di origine ungherese sopravvissuto all'Olocausto, sbarca in America con grandi speranze. Dal 1947 al 1952 è costretto a lavorare duramente in vari cantieri e officine finché incontra il figlio dell’eccentrico industriale milionario Van Buren che lo assume per progettare la biblioteca paterna...

3


Film fluviale scandito da tre parti più un epilogo e degno -soprattutto nel piglio e nell’intento- dei superclassici hollyoodiani come “Quarto potere” o “Il ribelle dell’Anatolia”, “The Brutalist” adempie alla missione di coinvolgere, turbare e mettere alla prova lo spettatore prima di lasciarlo con l’amaro in bocca per il progressivo cedimento in vista del finale a tesi. Girata in VistaVision 70mm, 3 ore e 35 minuti di durata, l’opera terza dell’ex attore ma ormai regista affermato Brady Corbet scritta con la moglie Mona Fastvold utilizza una tecnica narrativa stratificata -cioè alternando azione principale e digressioni- per svolgere una sorta di trattato di Storia americana alla luce di metafore ossessive e miti personali. Riuscendo così, d’intesa con il provetto direttore della fotografia Lol Crawley, a fare sembrare “The Brutalist” un film da cento milioni di dollari di budget mentre in realtà ne è costato un decimo.

Il primo elemento da premettere riguarda il rapporto tra cinema, design e architettura che consta d’importanti precedenti però spesso sviluppati in maniera convenzionale, mentre in questo caso il tema s’integra in profondità nella trama riuscendo a cogliere lo specifico di una forma d’arte che può parlare non solo di sé, ma anche della vita, le società e le relazioni tra gli esseri umani. La trama ruota sul protagonista László Tóth (Adrien Brody sempre stratosferico), fittizio architetto ebreo di origine ungherese formatosi alla Bauhaus e sopravvissuto all’Olocausto che ha varcato l’oceano con grandi speranze ma senza prevedere cosa potrà succedergli: il piano sequenza dell’arrivo del piroscafo a Ellis Island, scandito dalla musica di Daniel Blumberg, raggiunge subito il diapason emotivo accompagnando la lacera marea di migranti che emergono come un’orda di fantasmi dal buio dalla terza classe e sbucano sulla tolda dove incombe la visione della Statua della Libertà capovolta… È un’ allegorica anticipazione di quanto avverrà in linea con il titolo del film che allude, certo, alla corrente architettonica del brutalismo (da béton brut, cemento a vista) nata negli anni Cinquanta in Inghilterra, ma anche alle radici fondative degli Usa che consentirebbero allo straniero di mettere a frutto il talento però al prezzo di piegarlo alle logiche spietate del capitalismo. Dal 1947 al 1952 László, per dare solo un rapido riscontro della trama, benché dipendente da alcol ed eroina è costretto a lavorare duramente in vari cantieri e officine finché incontra il figlio (Alwyn) dell’eccentrico industriale milionario Van Buren (Pearce) che lo assume per riprogettare la biblioteca paterna, ne detesta il geniale e avveniristico risultato, ma poi è costretto a cambiare idea quando un’inopinata infatuazione spinge alcuni benestanti del suo giro a offrire a László l’incarico di progettare e costruire, pour cause in stile brutalista, un imponente centro culturale, religioso e ricreativo.

L’epopea di formazione -vagamente ispirato al saggio Architecture in Uniform di Jean-Louis Cohen  sul rapporto nel dopoguerra tra i traumi subiti e gli edifici da progettare ed erigere- accelera il ritmo nelle svolte degli ultimi capitoli, quando il protagonista ritrova la moglie malata Erzsébet (Jones) e la nipote muta Zsofia (Cassidy) fatte venire dall’Europa grazie ai potenti amici di Van Buren o quando una trasferta in Italia apparentemente solo per procurarsi il marmo innesca un climax parossistico che ricorda il Bertolucci di “Novecento” con tutto il fardello para-psicanalitico di devianza e violenza sessuale che ne scaturisce. Sembra quasi che Corbet abbia deciso di smarcarsi dal proprio magniloquente affresco sulle opportunità e i compromessi del Sogno Americano per potere arrivare più in fretta possibile a chiuderlo col suggello di una banale metafora sull’arte stuprata dal commercio.

 

Condividi su
Share




Torna su ↑
  • Old Movies Project

    Old Movies Project
  • Film Commission

    Film Commission
  • Archivi

  • Facebook

  • Link amici