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Pubblicato il 19 Settembre 2016 | da Valerio Caprara

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The Beatles: Eight Days a Week

The Beatles: Eight Days a Week Valerio Caprara
materiali documentali
regia
montaggio
emozioni

Sommario: La folgorante ed effimera parabola dei Fab Four ricostruita da Ron Howard con l'ausilio di materiali audiovisivi inediti o rarissimi e un originale quanto acuminato taglio documentaristico teso a ricostruire l'impatto esaltante e devastante delle loro mitiche tournée.

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Cacciando fuori dalla porta i professionisti dell’autodenigrazione occidentale, diciamo che è stato fortunato chi è stato giovane nell’epoca dei Beatles. La generazione dei baby boomers, alla faccia del catastrofismo apocalittico, fu proiettata, infatti, dallo sfolgorante percorso dei Fab Four in un mondo nuovo, nell’ineguagliabile immersione in un sentimento collettivo di libertà, felicità, bellezza e armonia. E fortunato è anche il pubblico destinatario dell’eclettica bravura dell’unico professionista su piazza a vantare uno stato di servizio che passa dall’attore di culto della tv anni 50 al regista da Oscar : a pensarci bene era forse inevitabile che Ron Howard si dedicasse un giorno o l’altro agli aspetti più struggenti di un fenomeno cruciale della cultura e lo spettacolo del Novecento. “The Beatles: Eight Days a Week” (in sala fino a mercoledì 21) non va assolutamente perso non solo perché è il primo documentario autorizzato sulla band, ma perché raccoglie un patrimonio di materiali rarissimi e sceglie una linea narrativa che rende di colpo secondaria la piramide di materiali sorta sulla memoria della Beatlemania. Trasgredendo le regole dei prodotti affini –non ci sono i racconti dell’infanzia, tutti gli episodi leggendari, i singoli ritratti psicologici, la marea delle polemiche, la conta dei lutti e neppure la compilation degli hits consacrati- il film preferisce evidenziare con un grande disegno di regia che si conclude sul tetto della Apple a Savile Row dove Paul, John, George e Ringo si esibiscono insieme per l’ultima volta la stessa collisione esplorata dagli studi di Benjamin, Horkheimer, Adorno, Morin, Eco tra arte e intrattenimento, sperimentazione e consumismo, fama e icona, identità e mitografia del personaggio postmoderno.

Dalle foto, i filmini, i servizi tv, i brani dei concerti in cui è pressoché impossibile sentire per le urla dei fans e l’ancora imperfetta tecnologia del suono, i look impagabili delle fanciulle in trance, le bizzarre esternazioni dei quattro pacifici ribelli venuti dalla Liverpool operaia, la loro antideologica naturalezza o le testimonianze della ragazzina Whoopi Goldberg che nel delirio dello stadio si sente per la prima volta uguale ai bianchi e della quattordicenne innamorata pazza Sigourney Weaver riconoscibile in un remoto filmato promana, così, magicamente il senso di un inizio che è nello stesso tempo fine, l’eco di una spirale fisicamente e mentalmente insostenibile, i preziosi frammenti di una storia esplosa e implosa nello spazio di un mattino. Proprio quanto dura quello della nostra giovinezza.

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