Recensioni

Pubblicato il 14 Febbraio 2020 | da Valerio Caprara

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Sugli Oscar 2020

Come sta succedendo al vertice del campionato italiano di calcio, qualità, competitività e suspense hanno finalmente rianimato l’ultimo atto della corsa agli Oscar. Dopo anni di messe cantate, polemiche politicanti, vincitori scontati e votazioni bulgare (le principali statuette al film più ecumenico e le briciole agli altri), l’altra notte al Dolby Theatre di Los Angeles un gruppetto di ottimi titoli si sono, infatti, battuti all’ultimo voto generando un verdetto composito e variegato in cui alcuni lasciano un segno più vivido e altri masticano amaro perché in possesso di altrettanto solide doti. La cerimonia più rituale e standardizzata di Hollywood ha potuto esibire, così, uno scatto d’orgoglio scrollandosi di dosso un po’ di polvere corporativa, cercando e in parte trovando segnali confortanti nel cinema di casa, ma anche nei territori dislocati al di là dell’universo industriale per antonomasia. Certo l’impresa di “Parasite” fa la storia non solo e non tanto perché la spunta contro contendenti particolarmente agguerriti aggiudicandosi quattro statuette (tra cui i due premi più ambiti: miglior film e migliore regia, oltre che miglior film internazionale e migliore sceneggiatura), ma soprattutto perché per la prima volta nella storia degli Academy Award il premio per il miglior film è andato a una pellicola non in lingua inglese (per la verità bisognerebbe conteggiare anche il francese “The Artist”, che però è …muto).

Peccato che, magari per ragioni di comprensibilità e semplicità mediatiche, al formidabile apologo dai toni e gli stili ribaltati più volte del talentuoso Bong Joon-ho -il cui precedente noir “Memorie di un assassino” proprio in questa settimana è stato riprogrammato in molte sale italiane- viene affibbiata l’etichetta di “ferocemente anticapitalistico”. “Parasite” naturalmente lo è e anche in senso estremistico perché la lotta tra due famiglie situate all’opposto della scala sociale v’introduce la terribile profezia di un imminente scontro totale tra i diseredati e i ricchi; ma l’originalità del suo punto di vista e della sinfonia del grottesco e dell’orrore che ne scaturisce sta nel fatto che i primi non sono affatto buoni, umili e politicamente nobili, bensì desiderano usufruire e godere dei beni dei primi e dunque in una visione iper-nichilista della natura umana nel suo insieme. Quasi la stessa chiave drammaturgica di “Joker”, che secondo noi resta di un’incollatura superiore al sudcoreano non solo per la sublime prestazione di Phoenix (peraltro incoronato, e ci mancherebbe altro, miglior attore), ma anche perché appena un po’meno cerebrale e più folle sul piano degli scenari, le coreografie e le musiche. Onori grandi meritano anche il travolgente film di Mendes che con “1917” rinnova in modi fortemente visionari la grande tradizione del genere bellico e “C’era una volta a… Hollywood” di un Tarantino così sottile, raffinato e perfezionistico da sembrare a torto meno efficace a una parte del pubblico e persino ad alcuni dei suoi promotori. L’aspetto, però, per noi più confortante non sembra quello che riguarda solo il bilancio del cinema dell’anno scorso a trazione hollywoodiana; bensì quello che rilancia la speranza nel ritorno globale di un cinema ad alto livello di creatività, spettacolarità, coraggio e fantasia. Le serie tv aumentano inevitabilmente a ogni stagione il loro livello tecnico e la loro ambizione produttiva ma, come dimostra -e naturalmente ci dispiace- la cattiva sorte arrisa nella notte di “Parasite” al monumentale “The Irishman” allestito per Netflix dal maestro Scorsese, la magia del grande schermo e della sala pubblica continuano a resistere e non intendono gettare la spugna.

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