Recensioni

Pubblicato il 9 Ottobre 2020 | da Valerio Caprara

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Roubaix, une lumière

Che grande film, però per apprezzarlo bisogna avere molta passione e un po’ di competenza. “Roubaix, una luce nell’ombra” ribadisce innanzitutto lo stato delle cose cinematografiche del momento: con i film americani vieppiù rassegnati a causa del Covid all’egemonia dei blockbuster e quelli italiani quasi sempre confinati nel reparto commediole ridanciane senza nerbo, è il cinema francese (insieme a quello più ostico dell’est asiatico) a cercare di animare il mercato azzardando titoli impegnativi e approfonditi, fuori dai generi o almeno innovativi rispetto ai cliché degli stessi. Il regista Desplechin, per esempio, è ritornato nella sua città natale delle Fiandre ai confini col Belgio, la Roubaix del titolo che si cita quasi solo per il poco invidiabile record di città con il più basso reddito di tutto l’esagono per ambientare un poliziesco a carburazione lenta nei suoi quartieri desolati e plumbei, popolati da disoccupati, emarginati, immigrati clandestini e delinquenti d’ogni risma. All’inizio divagante e sincopato, il film usa la gendarmeria locale più che come classico Fort Apache di periferia, come perno drammaturgico attorno a cui fare ruotare la serie dei crimini che giorno e notte allignano nel caos e nel degrado e attraverso la figura del carismatico commissario Daoud, sublimamente interpretato da Roschdy Zem, conduce a poco a poco la normale attività di polizia in un territorio assai malsano, una sorta di spazio segreto che sembra volere distaccarsi dalla trama e confrontarsi con le riflessioni dostojevskyane sull’assenza di Dio e il Male metafisico. Tanto è vero che assume un ruolo importante anche il personaggio apparentemente secondario dello sbirro novellino, insolita figura di credente che si tormenta, prega e s’interroga su come Dio possa permettere la dilagante invadenza del Maligno (fatti salvi i cast dei capolavori di Bresson, con l’unico precedente recente dell’ambiguo protagonista di “First Reformed” di Schrader). Si apre il caso, infatti, di un omicidio particolarmente efferato: una vecchia ubriacona e solitaria è stata rapinata e uccisa nel suo letto nel corso delle feste di Capodanno, ma le indagini non sono facili come, del resto, dettagliava con precisione il premiato documentario di Mosco Boucault “Roubaix, commissariat central” a cui l’autore s’è ispirato; fino a quando i sospetti non si concentrano su una coppia di giovani vicine, alcoliste, lesbiche e sbandate… Il film a questo punto cambia registro e s’immerge in una coltre di tenebre che la direttrice della fotografia Irina Lubtchansky riesce a rendere gravide di minacce, striate dei mille rivoli della disperazione materiale e psicologica, portatrici di misteri che neppure l’infinita tenacia e la ferrea pazienza di Daoud hanno gioco facile nel diradare. Questo protagonista indimenticabile non assomiglia certo agli Henry Fonda o Gary Cooper del cinema americano classico, ma si sforza con spirito laico e pragmatico d’intuire, collegare, sviscerare gli indizi senza atteggiarsi mai da eroe o di cedere alla brutalità nei diapason delle indagini e gli interrogatori. Formidabili, va da sé, anche le prestazioni della Seydoux e la Forestier i cui rispettivi personaggi trascendono la solita motivazione sociologica consolatoria e buonista, ma si rivelano, come recita l’aforisma di una delle opere fondamentali di Nietzsche, semplicemente, tragicamente, “umani troppo umani” (cosa lega le due donne in un rapporto che appare d’amore e nello stesso tempo di dominio e plagio?). Roubaix, intanto, non resta certamente sullo sfondo come una cartolina veristica: la sua topografia si raggrinzisce in una sorta di natura morta, un organismo vivente e pulsante, una landa infetta che neppure Chabrol o Simenon avrebbero saputo fare “agire” meglio nel vivo della trama. Desplechin, proprio come il commissario deus ex machina, non giudica ma interpreta, alterna sapientemente i campi lunghi ai i primi piani, le sequenze prolungate e fluide agli stacchi violenti, limitandosi in fondo a cercare d’illuminare ciò che è opaco (così la luce del titolo si trasforma in stato d’animo), a sbrogliare ciò che è confuso, a tradurre in parole ciò che è silente senza mai, appunto, separare la visione etica da quella, regolata dal libero arbitrio, della responsabilità individuale e del diritto alla felicità e alla giustizia.

ROUBAIX, UNA LUCE

POLIZIESCO – FRANCIA 2019   ****

Regia di Arnaud Desplechin. Con Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz

   

 

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