Queer
Sommario: Città del Messico, anni Quaranta. L'americano Lee in fuga dai suoi demoni trascorre giorni e notti ubriacandosi di tequila in lerce bettole, bucandosi spesso e volentieri e soprattutto adescando sconosciuti giovanotti. Finché la sorte non gli offre la chance del connubio con l’aitante reduce bisex Allerton, il partner perfetto con cui recarsi nella giungla ecuadoregna alla ricerca del decotto psichedelico ayahuasca...
1.5
A Luca Guadagnino potrebbe adattarsi l’etichetta di Fassbinder for dummies, ovvero per spettatori profani, inesperti o non portati. Come dire che il suo cinema di successo (pompato soprattutto in ambito internazionale) riprende gusti, temi e trasgressioni del geniale Rainer Werner però con tratti sommari, stereotipati e inautentici. La conferma sta anche in “Queer”, adattamento diviso in tre capitoli e un epilogo dell’omonimo romanzo breve e semi-autobiografico di William S. Burroughs scritto nel 1951 in una prigione messicana (ma pubblicato solo nel 1985), un testo duro e inquietante spesso letto come un esorcismo letterario in attesa del processo per l’omicidio della moglie Joan uccisa con un colpo alla testa nel corso di un folle gioco alla Guglielmo Tell. Scritto da Justin Kuritzkes, già sceneggiatore del precedente “Challengers”, il film inizia pedinando i vagabondaggi a Città del Messico di Lee, alter ego dello scrittore omosessuale interpretato per beffardo capriccio autoriale da Daniel Craig, già macho per eccellenza nonché ex gagliardo 007. Nella megalopoli interamente ricostruita come s’usava un tempo a Cinecittà, il protagonista in fuga dai suoi demoni trascorre giorni e notti frequentando la comunità di espatriati americani, ubriacandosi di tequila in lerce bettole, bucandosi spesso e volentieri e soprattutto adescando per un pugno di pesos sconosciuti giovanotti. Finché la sorte non gli offre la chance del connubio con l’aitante reduce bisex Allerton (Starkey), il partner perfetto con cui recarsi nella giungla ecuadoregna alla ricerca del decotto psichedelico ayahuasca o yage consumato dagli indigeni sotto la guida di uno sciamano e associato a processi di introspezione, guarigione spirituale e connessione con la natura.
Sulla scia del libro (quando fu pubblicato in Italia nel 1998 era intitolato fuor di metafora “Checca”, mentre la riedizione del 2014 ha ripristinato l’originale “Queer”) e dei classici in qualche modo affini -in primis “Il tè nel deserto” di Bertolucci, “Il pasto nudo” di Cronenberg e “Sotto il vulcano” di Huston- l’esotismo dell’atmosfera si giova della sontuosa fotografia dell’abituale collaboratore del regista Mukdiphrom, ma nel contempo lascia trapelare un sentore sempre più forte di pretensione e artificiosità. Per fare solo qualche esempio non manca il solito combattimento di galli clandestino, nella stanza dell’antieroe campeggia una macchina da scrivere che non sembra usata di frequente, il sordido battuage notturno non impedisce a Lee di indossare un elegante abito di lino stropicciato e un vezzoso cappelluccio di feltro, i personaggi sfoggiano una gamma d’occhiali -neri, tartarugati o con la montatura trasparente- che assomigliano alle pubblicità di Dolce & Gabbana o di Vuitton e le scene di sesso gay (“spermatiche” le ha definite Guadagnino) non risultano estreme come era stato preannunciato magari confrontandole con quelle ormai di routine nei film da festival e da Oscar come “Povere creature!”, “Babygirl”, “Anora” o “The Substance”.
L’esistenzialismo di Burroughs predilige un climax straniato e ossessivo nutrito dal senso di disgusto per un sé stesso insettoide e ameboide, mentre Guadagnino tende a rendere glamour ogni spazio della narrazione, seduzioni e provocazioni comprese. Succede così che la sfavillante confezione e le martellanti musiche di Trent Reznor e Atticus Ross arricchite da brani dei Nirvana, Sinéad O’Connor e Prince finiscano per ingolfare i 135 minuti di pellicola (sia pure sforbiciata rispetto al passaggio senza gloria alla Mostra di Venezia), come se il regista avesse programmato d’esplorare i tormenti del desiderio e la creazione però svuotandoli dell’intrinseca angoscia, riciclando l’esperienza delle visioni e alterazioni dello stato di coscienza mitizzata dagli aedi della Beat Generation (cfr. Lettere dello Yage di Ginsberg e Burroughs) e forzando il contesto letterario di realismo magico per ottenere un prodotto in linea con la propria compiaciuta militanza woke.