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Pubblicato il 11 Settembre 2018 | da Valerio Caprara

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Polemiche (inutili) contro Netflix

Polemiche (inutili) contro Netflix Valerio Caprara

Sommario: A proposito delle polemiche di alcune associazioni di categoria contro il Leone d'oro della 75esima Mostra del cinema di Venezia attribuito a "Roma" di Cuaròn prodotto e distribuito dalla piattaforma streaming Netflix.


Sul podio della Mostra del cinema numero 75 finalmente svettano titoli sensati, spalmati su un verdetto che valorizza le diverse anime del popolo festivaliero anziché blandire, come accadeva di solito, le preferenze dei critici più cervellotici e autoreferenziali. Non c’è stato, però, neppure il tempo di mandare ideali baci & abbracci al presidente Del Toro e ai suoi giurati, tramandando la gloria dell’affresco “Roma” o del western “The Sisters Brothers”, che il maggioritario, se non generale compiacimento si ritrova esposto ai tuoni e fulmini degli autori ed esercenti nostrani. L’Anac, la Fice e l’Acec, autorevoli associazioni di categoria, hanno infatti lanciato l’anatema mediatico di un duro comunicato in cui si sostiene che l’attribuzione del Leone d’oro a Cuaròn e il premio per la migliore sceneggiatura ai Coen rappresenta un iniquo veicolo di marketing per la piattaforma Netflix che “con risorse ingenti sta mettendo in difficoltà il sistema delle sale cinematografiche italiane ed europee”. La querelle non è nuova perché all’ultimo festival di Cannes era andato in scena un duello analogo, conclusosi con la vittoria dei puri e duri e la conseguente eliminazione dal cartellone ufficiale dei titoli prodotti dalle nuove piattaforme internet e riservate ai propri abbonati; ma soprattutto perché già in occasione della conferenza stampa della Mostra nel mese di luglio a Roma era montata l’ira contro lo “sdoganamento” in concorso dei prodotti Netflix annunciato e messo in atto dal direttore Alberto Barbera. Il tormentone, per la verità, non era stato percepito come cruciale dall’opinione pubblica, ma adesso è diventato ovviamente improbabile che passasse sotto silenzio la “rivoluzione” dell’ex arcinemica public company di Ted Sarandos coronata dall’aureola dei vincitori.

E’ molto difficile prendere una posizione netta in un frangente che mescola cause ed effetti complicati e spesso in insolubile contraddizione tra loro: se, infatti, il cuore dello spettatore appassionato non batte a vuoto ribadendo che restano e resteranno imbattibili l’effetto emotivo e la pregnanza linguistica del film visto in sala, è pur vero che il presidente della Biennale Baratta, ancora trionfante per i numeri monstre raggiunti in termini di biglietti venduti, presenze e accrediti dall’edizione terminata sabato, si è difeso bene dichiarando che “non siamo certo noi i regolatori del mercato”. Né ci sentiamo, ancorché appartenenti alla categoria dei veterani della cinefilia, di respingere in toto le parole di un direttore come Barbera inappuntabile sul piano della competenza, dell’onestà e della passione: “Tutte le eventuali polemiche su questa vittoria sono effetto di una nostalgia che non si misura con la realtà di Netflix, la piattaforma più importante, ma che vede protagonista anche Amazon e sicuramente a breve altri soggetti. Sembra comunque che proprio Netflix stia per comprare una catena di sale cinematografiche negli Stati Uniti. Insomma il futuro sarà tra sale e questa nuova realtà streaming. Difendere il passato oggi significa solo perdere opportunità”. Sul piano del realismo anche un po’ cinico, inoltre, si può annotare a margine come la rigidità dei dirigenti di Cannes –peraltro motivata dalle strettoie protezionistiche della legge francese sul cinema- ha finito col favorire il nostro festival più importante che non a caso da due-tre anni ha preso un netto sopravvento sullo storico rivale.

A questo punto il nostro tutt’altro che stentoreo parere non può che ispirarsi a un prudente pragmatismo: innanzitutto è opportuno rafforzare la richiesta (in parte già recepita dal colosso californiano che ne ha previsto l’uscita il 14 dicembre nel circuito d’oltreoceano) di fare circolare film dell’ineccepibile livello di “Roma” anche in un buon numero di sale italiane. Una strada non del tutto impervia perché, per esempio, negli Usa per qualificarsi all’Oscar è già obbligatorio che un film sia programmato nei cinema per alcuni giorni di seguito. Poi non è utile affidarsi a un cieco misoneismo accettando la realtà dei fatti di una pluralità di soggetti interessati a film e serie perché questo inarrestabile movimento – con la relativa esplosione di blog, social network, webzine specializzati, d’insegnamenti nelle università e le scuole di formazione, di eventi, rassegne, incontri- è figlio di una crescente domanda da parte degli utenti che ha ovviamente bisogno della moltiplicazione dei canali di distribuzione. In questo senso funziona la replica che Will Smith a Cannes diede all’apocalittico purismo di Almodòvar: “Io ho tre figli e a casa mia non è cambiato nulla. Lo streaming non ha fatto altro che ingrandire l’offerta, permettendogli di vedere film che altrimenti non avrebbero mai visto”. Quante volte, infatti, abbiamo subito le omelie sulla morte del cinema senza che questo si sia davvero verificato (l’ultima volta in occasione dell’avvento delle videocassette)? Siamo proprio sicuri che legioni di spettatori italiani (l’anno scorso disertori seriali del botteghino) sarebbero già in fila per strappare un posto nella sale dove si proiettano i cosiddetti film di qualità anziché una commedia scema o un blockbuster?

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