Recensioni

Pubblicato il 14 Maggio 2016 | da Valerio Caprara

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Pericle il nero

Pericle il nero Valerio Caprara
soggetto
sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Spietato esecutore per conto della camorra è costretto a fuggire per avere inconsapevolmente commesso uno sgarro. Grazie all'incontro con una donna deciderà di fare i conti con il proprio passato e spezzare le catene dei suoi guardiani.

2.6


Noir brutale e romantico, ma sempre, volutamente incalzato da un retrogusto grottesco, Pericle il nero avrebbe potuto chiamarsi “Pericle il sodomizzatore”. Perché è esattamente questo il compito del protagonista interpretato da Riccardo Scamarcio, ‘guaglione’ emigrato a Liegi agli ordini del boss Luigi (Gigio Morra) che gli ha affidato la pratica di punire nemici e debitori attraverso la più oscena delle umiliazioni: liberamente ispirato all’omonimo romanzo culto dell’ischitano Giuseppe Ferrandino, estroso e appartato scrittore nonché uno dei capiscuola degli sceneggiatori italiani di fumetti, il film ne rispetta l’intreccio sia pure osando trasferire la doppia ambientazione dal magmatico ventre di Napoli alle gelide atmosfere del nord Europa. Un passaggio, peraltro, pressoché obbligato dall’esplosione del nuovo e spietato genere gomorristico, lontano anni luce dal taglio e dal gusto delle pellicole affini girate negli anni in cui è stato pubblicato il romanzo. Lo stile prescelto da Mordini (Provincia meccanica, Acciaio) risulta pour cause aderente a un ritmo narrativo sincopato garantito da una macchina da presa non compiaciuta, bensì rispettosa della concentrazione estrema e icastica della graphic novel ferrandiniana: l’andatura quotidiana di Pericle è dunque caratterizzata da una flemma torpida e ottusa che riflette, senza cedere a un’emozione che sia una, ambienti e personaggi in cui l’efferata violenza si fonde con atteggiamenti e dialoghi congelati da un’atroce indifferenza. Un brutto giorno, mentre sta portando a termine una delle missioni ai danni di un prete troppo chiacchierone che rischia di danneggiare il florido business delle pizzerie di Don Luigi, abbatte per caso forse a morte la vecchia “Signorinella” (Maria Luisa Santella), sorella di un boss alleato. A questo punto dovrà fuggire da tutto e tutti, approdando provvisoriamente nella piovigginosa Calais (nel libro è Pescara) che rappresenta il classico non-luogo in cui la condizione di solitario e/o braccato sembra estendersi all’intera, ambigua ed equivoca popolazione.

Il film ha molti meriti e altrettanti difetti. Il jolly di Scamarcio –già eccellente come attore- sta nella sua seconda identità di produttore del film con la sigla della BuenaOnda cofondata con Viola Prestieri e Valeria Golino che ha presieduto all’alta qualità della confezione capace di convogliare quattro superprofessionisti come il fotografo Cocco (superbi i suoi colori densi e soffocanti), il montatore Quadri, il musicista Von Poehl e lo scenografo Gabriel sulla strada della confusa presa di coscienza di Pericle o, più precisamente, sulle traiettorie del suo sguardo catatonico e strafatto illuminato dalla scoperta della tenerezza e del calore di un sia pure anonimo focolare domestico. Il cane rabbioso trova, in effetti, un buon padrone nella commessa di boulangerie splendidamente interpretata dall’insolita, matura e spigolosamente sexy Marina Fois: al posto della costruzione di un rapporto “normale” s’instaura, così, una corrispondenza di bisogni carnali e solitudini incrociate. Ma è proprio qui che “Pericle il nero” mostra le crepe che gli negano il transito da discreto film di genere a titolo memorabile. Quella che potrebbe, infatti, definirsi conversione, con Pericle che decide di affrontare i propri fantasmi per potersene liberare una volta per tutte, si sfalda nello stereotipo del criminale più “innocente” dei suoi mandanti e nell’attenuazione progressiva dell’intensità simenoniana originaria. Sotto questo aspetto la spassionatezza di Ferrandino (che definì il proprio metodo “volterriano”) finisce impropriamente con l’assomigliare alla convenzionalità di molti altri, sia pure vivaci e ambiziosi, giallisti nazionali come Carlotto, Pinketts, Lucarelli o Dazieri e la concisione del tratteggio, in precedenza generatrice di fulminee inquadrature e sequenze quasi disegnate sulla pellicola, si lascia sopraffare dalle anse pretestuose dell’intreccio con relativo fardello di spiegazioni e rievocazioni nocive per la suspense. Della scivolosa verità, insomma, che viene fuori in sottofinale non importa più molto allo spettatore, impigliato in troppe parole dopo che la regia gli aveva suggerito per tutto il tempo precedente che nella sporca lotta per la sopravvivenza l’unica cosa che conta sono i giri della ruota del destino.

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