Pubblicato il 21 Ottobre 2010 | da Valerio Caprara
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Di slancio “Passione” appare un film euforizzante, solare, sincero, riuscito. Ma anche a mente fredda, le ragioni per augurare al cinetour del napoletano onorario John Turturro un ampio consenso ci sembrano tutt’altro che peregrine: l’amato attore e regista di Brooklyn non si atteggia a documentarista né a musicologo e cerca di motivare la sua miscellanea di canzoni glocal, partenopee e insieme internazionali, in base a un’idea del tutto personale di messinscena; l’apparato tecnico di questa rilettura, riveduta e corretta dal prezioso superesperto Federico Vacalebre, di pezzi classici, moderni e rivisitati è di primissima qualità (a cominciare dalla stupenda fotografia di Marco Pontecorvo); il contatto d’istintiva e persino ingenua adesione istituito con l’odiosamata metropoli assicura momenti di puro godimento, scatena la voglia di ballare e cantare in platea, tramanda la classe e la grinta di moderni interpreti –come la blueswoman Pietra Montercorvino- mai abbastanza promozionati.
Come si è capito una trama non c’è, o meglio la trama si modella sulle avventure audiovisive di Turturro tra i vicoli, le piazze, le chiese in cui il ‘genius loci’ si traveste da angelo e demone, dissipa tesori di tradizione e recupera giacimenti di modernità, si spegne nel degrado e poi rinasce con un irridente sberleffo o una nostalgica lacrima. E’ vivamente sconsigliato, pertanto, chiamare in causa “Carosello napoletano” che resta un unicum per la sua insuperabile armonia di canto, recitazione e danza dispiegati sull’intero profilo storico della città; nel caso di “Passione”, invece, prorompe soprattutto una corda, quella della visceralità popolare, del vitalismo indomabile, del Viviani antitetico a Eduardo, del meticciato etnico-sonoro fortemente contemporaneo, dell’immersione tutta carne e sensi nell’iperrealismo quotidiano che rischia, pour cause, l’oleografia e il compiacimento. La serie delle rappresentazioni, una suite vorticosa di episodi, bozzetti, flash non può che prefigurarsi in questo senso, il disincanto e persino la rabbia di coloro, tra i cultori e i consumatori, che si scopriranno amputati di una melodia o di un nome. Un fenomeno – con Roberto Murolo e Peppino Di Capri nel ruolo dei grandi desaparecidos- più che legittimo, ma destinato a confrontarsi proprio con l’approccio non filologico di “Giuà” Turturro & co. Lo stesso, per intenderci, che disintegra lo schermo con il “Comme facette mammeta” scarnificato dalla voce di carta vetrata della Montecorvino e coreografato da trascinanti ballerine hip hop nel Palazzo dello Spagnuolo; cade nel goffo quando si concede l’inutile sceneggiata di “Malafemmina”; si esalta con la “Tammurriata nera” di Peppe Barra e si prende in giro deliziosamente con il “Don Raffaé” dello stesso chansonnier procidano; fa intravedere in un bianco e nero anticato le qualità inimitabili della primadonna Angela Luce e si arresta di colpo, quasi meravigliato, a percepire il sussurro di Cigliano all’ombra delle tele di Caravaggio o lo straziante dialogo di superman Senese con il suo sax; insegue “Nun te scurdà” sui passi perduti di Raiz o della conturbante M’Barka Ben Taleb e incita Fiorello e Max Casella a stargli dietro mentre estremizza l’humour carosoniano di “Caravan Petrol” alla Solfatara (come se s’aggirasse in uno dei meandri nonsensici dei fratelli Cohen).