Pubblicato il 24 Ottobre 2024 |
da Valerio Caprara
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Parthenope***
Non basteranno a cambiarlo i panegirici mediatici, i profluvi del termine “maestro”, le coccarde delle istituzioni a costo zero. Paolo Sorrentino anche dopo “Parthenope” resterà un cineasta che si fa beffe della morigeratezza (e) dei messaggi, un artista dell’attimo e un sabotatore dell’eterno, un raccontatore di storie che non vuole allearsi con lo spettatore bensì anticiparlo sistematicamente… Hanno certo ragione lettori e spettatori che pretendono giudizi tassativi, ma “Parthenope” è strutturato come un’esperienza sensoriale per certi versi ineffabile, un labirinto audiovisivo nei cui meandri è inevitabile perdersi e ritrovarsi, un profluvio di schegge, scorci e frammenti che scandiscono la vita iperrealistica e nel contempo immaginaria della protagonista facendo in modo che i continui scarti di visioni e situazioni comunichino sensazioni volutamente divergenti.
Incarnata nell’anima e la carne di Napoli campeggia Celeste Dalla Porta che si presta senza remore alle mutazioni di fisico, look e contegni attraverso cui l’ingiudicabilità della città più bella e più contraddittoria del mondo secondo Sorrentino si evidenzia nell’arco di storia che va dal 1950 al 2023. Senza dubbio ammaliante appare l’adolescenza di fine anni Sessanta della borghese sirenetta che trionfa nelle luci ocra-azzurre di Posillipo e i suoi palazzi a mare in cui s’intrecciano i sensuali desideri e la noncuranza blasé che resta per sempre tatuata sulla memoria dei cultori del La Capria di Ferito a morte. Come del resto il passaggio del ’73 che s’insinua negli hotel di charme capresi e la fauna umana tardo-decadente gremita di letterati americani alcolisti (Oldman perfetto) e maschi levantini trasudanti sensualità, una full immersion di fugaci amori, scambi di partner e passeggiate a Tragara in sintonia con la fama trasgressiva dell’isola non ancora cannibalizzata dalle orde del turismo di massa postmoderno. Insomma le due Parthenope -la donna e il simbolo, sempre avidi di sperimentare e sempre inappagati- possono permettersi di fronteggiare qualsiasi contingenza senza esserne sporcate, emendate e men che mai sterilizzate persino quando irrompe il gigantesco ragno meccanico che irrora via Caracciolo per scongiurare i miasmi del colera.
La prassi del cineasta è affilata e tende a ferire chi tenta di gestirla e non a caso è la doccia scozzese l’effetto che sia i custodi avveduti, sia quelli scadenti della napoletanità devono mettere in conto per potergli tenere testa alternando, magari, compiacimento e sdegno… La sua è a tutti gli effetti una dichiarazione piena d’amore e di rassegnazione, di grandi speranze e di reiterate frustrazioni, di bellezza e d’irrisione. Basta estrarre dal caos organizzato un paio d’esempi, Luisa Ranieri cripto Sophia Loren che di cognome fa Cool (attenzione alla pronuncia inglese), non riceve i soldi pattuiti per un’ospitata e reagisce scaraventando parrucca e contumelie contro la città e i suoi “poveri, vigliacchi e piagnucolosi” abitanti oppure Peppe Lanzetta nei paramenti e gli slip del laido cardinale che esegue pratiche hard su Parthenope addobbata coi monili del tesoro di San Gennaro onde stimolare in modalità tra il blasfemo e il pacchiano la riuscita dell’omonimo miracolo.
Ma in sostanza un film tutto in contromano come questo che prende, cioè, di mira gli stereotipi, li sbeffeggia per poi ri-mitizzarli e viceversa, non si postilla al dettaglio perché si rischierebbe d’ingaggiare un match (e perderlo) col regista a colpi di aforismi, citazioni e battute o, peggio, l’overdose di saccenteria considerando che i fatti volteggiano -con un ideale mezzo sorriso stampato sulle labbra- tra la Napoli milionaria di Eduardo e La pelle infetta di Malaparte, la nascita dell’egemonia criminale con l’accoppiamento di due eredi di clan camorristici rivali eseguito in diretta al cospetto di un pubblico plaudente e i rituali della carriera universitaria per il tramite del docente Silvio Orlando, antropologo sapiente perché conosce Billy Wilder e non solo Lévi-Strauss. Tuttavia per rispetto dei lettori e spettatori di cui sopra, asserragliati nel fortino del mi piace/non mi piace, azzardiamo che secondo noi il film vola alto sino a quando non s’ingolfa in vista del finale tra colpi di scena degni di “Alien”, musica soverchiante e la Sandrelli sfiorita professoressa pensionata che non completa una sola frase di senso compiuto e rimira sbalordita (!) i festeggiamenti per lo scudetto.
In ogni caso proprio come il mare -sacco amniotico di Parthenope e di Paolo- trascina e sommerge l’enigma del nostro stare al mondo, il battito del film che tiene in vita i suoi personaggi naturali e strafottenti trascina e sommerge il tempo. Infatti mentre sui titoli di coda risuonano le note di “Che cosa c’è” dentro di noi riaffiora, invece, l’epigrafe di Conrad che suggella il sublime racconto Giovinezza: “… i nostri volti col marchio della fatica, degli inganni, del successo, dell’amore, i nostri occhi stanchi che cercavano ancora, che cercavano sempre quel qualcosa nella vita che mentre s’attende è già andato -è passato non visto, in un sospiro, in un lampo- insieme alla giovinezza, insieme alla forza, insieme al romanzo delle illusioni”.
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