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Pubblicato il 15 Giugno 2024 | da Valerio Caprara

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Parthenope

Parthenope Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario:

4.5


Il dato positivo è fuori discussione. Non basteranno a cambiarlo i panegirici mediatici, i profluvi del termine “maestro”, le coccarde delle istituzioni a costo zero. Paolo Sorrentino anche dopo “Parthenope” che non compiace l’ossessione del messaggio, la correttezza dell’assunto, gli autodafé patriottici resterà un cineasta a parte con ispirazione straripante, un artista della forma e un sabotatore del contenuto, un raccontatore risoluto che non vuole attendere lo spettatore bensì precederlo sempre… È comprensibile la curiosità che aleggia sui lettori in attesa (il film uscirà in autunno), ma “Parthenope” è strutturato come una cattedrale simbolo di una visione del mondo “altra” nelle cui proporzioni e i cui spazi è naturale perdersi e ritrovarsi a ogni fotogramma, il monumentale universo proustiano che l’illustre concittadino Gennaro Oliviero ha sapientemente esplorato nel saggio “Proust e le Cattedrali”. Dunque la ricchezza, la varietà, l’estrosità e aggiungiamo l’effetto disuguale degli episodi, per non dire degli scorci fulminei, che scandiscono la vita -iperrealistica e insieme immaginaria- della protagonista reggono senza cedimenti il leitmotiv del film ancorché i continui scarti di dialoghi, visioni e situazioni comunichino sensazioni notevolmente divergenti. Di sicuro non si dimentica la protagonista Celeste Dalla Porta incarnata nell’anima e la carne di Napoli che prende forza dalle vorticose mutazioni di fisico, look e abbigliamenti attraverso cui non tanto l’indefinibilità quanto l’ingiudicabilità della città più bella e più contraddittoria del mondo secondo Sorrentino s’esibisce senza remore nell’arco temporale che va dal 1950 al 2023. Ammaliante, per esempio, appare l’adolescenza di fine anni Sessanta della borghese sirenetta che trionfa nelle luci azzurro-dipendenti di Posillipo e i suoi palazzi a mare in cui s’intrecciano i sensuali desideri e la noncuranza blasé che resterà per sempre tatuata sulla memoria dei cultori del La Capria di “Ferito a morte”. Come non delude il salto nel ’73 che deambula negli hotel di charme capresi e s’amalgama nella fauna umana tardo-decadente gremita di letterati americani alcolisti e maschi levantini trasudanti sensualità, una full immersion di fugaci amori, scambi di partner e passeggiate a Tragara in sintonia con la fama trasgressiva dell’isola non ancora cannibalizzata dalle orde del turismo di massa. Parthenope donna e dna etnico, insomma, possono permettersi e sperimentare tutto senza venirne sporcati e men che mai modificati persino quando irromperà direttamente dai film di Mad Max il gigantesco ragno meccanico che irrora via Caracciolo per scongiurare i miasmi del colera. Magari gli habitué del cinema allineato e corretto sobbalzeranno per i due lunghi episodi di sarcasmo sorrentiniano in purezza: prima Luisa Ranieri cripto (ma non tanto) Sophia Loren che non riceve i soldi pattuiti per un’ospitata e reagisce scaraventando parrucca e contumelie contro la città e i suoi “poveri, vigliacchi e piagnucolosi” abitanti e poi all’alba degli Ottanta Peppe Lanzetta nelle vesti (e senza) del cardinale officiante il miracolo di San Gennaro che esegue pratiche hard a Parthenope diventata nel frattempo astro nascente della cattedra federiciana d’antropologia culturale. Ma in sostanza un film come questo non si postilla troppo perché si rischia l’overdose di saccenteria, considerato che i riferimenti spaziano come cavalli imbizzarriti tra la Napoli milionaria di Eduardo e La pelle infetta di Malaparte, la nascita dell’egemonia criminale (simboleggiata dall’accoppiamento di due eredi di clan camorristici rivali eseguito in diretta al cospetto di un pubblico plaudente) e -quando s’imboccano le anse più anguste della ballata -la carriera della protagonista patrocinata dal prof Silvio Orlando, sarcastico e sapiente perché conosce Billy Wilder e non solo Lévi-Strauss, ma che nasconde nell’intimità domestica un orribile segreto degno di “Alien”. Come agisce il mare -sacco amniotico della protagonista e dell’autore- che trascina nel suo moto perenne il segreto del nostro stare al mondo, questo film ridondante e impulsivo, barocco e cerebrale certo si modella ai sentimenti di vicinanza e fuga, rispetto e repulsione che comunica Napoli a chi non si crogiola nell’odio o la beatificazione. Sui titoli di coda risuonano le note di “Che cosa c’è”. Dentro di noi, invece, alla voce di Paoli si sovrappone l’epigrafe di Conrad che suggella Giovinezza: “… i nostri volti col marchio della fatica, degli inganni, del successo, dell’amore, i nostri occhi stanchi che cercavano ancora, che cercavano sempre quel qualcosa nella vita che mentre s’attende è già andato -è passato non visto, in un sospiro, in un lampo- insieme alla giovinezza, insieme alla forza, insieme al romanzo delle illusioni”.

 

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