Pubblicato il 6 Luglio 2022 | da Valerio Caprara
0NOSTALGIA
È un film molto lineare, “Nostalgia”, interpretato magnificamente dall’intero cast e in particolare, va da sé, dal supremo Favino e l’ormai super affidabile Di Leva. Tutto il percorso biografico à rebours del protagonista, in effetti, sembra appoggiato su una maxi tela in cui fotografia, scenografia e montaggio non smettono mai d’integrare una materia schizoide, calda e colorita nell’inesorabile progressione delle psicologie e dei fatti. Subito dopo quell’autentico capolavoro di “Qui rido io”, Mario Martone conferma di avere acquisito un approccio diverso e per noi migliore del proprio gusto e del proprio metodo cinematografici. Infatti sembra a chi scrive –notizia di per sé ininfluente, ma riportata per dovere di trasparenza nei confronti di vecchi e nuovi lettori- che abbia al momento tralasciato il piglio storicistico assertivo e pedagogico, un po’ nel solco simil-brechtiano dei fratelli Taviani, per accedere a uno stile più fluido, epico e in un certo senso pluralistico. Il romanzo di Rea da cui il film è trasposto (grazie anche all’affiatamento di scrittura con la consorte Ippolita Di Majo) costituiva, del resto, un ottimo varco da cui potere lanciare uno sguardo non pretenzioso né demagogico sulla più inafferrabile e indefinibile metropoli europea che perpetuamente oscilla -più ancora dal dopoguerra a oggi- tra balzi in avanti e rese umilianti, conquiste civili e ricadute nel più cupo e melmoso gomorrismo. Mentre in altri esiti letterari di Rea –a cominciare da “Mistero napoletano”- lo svolgimento tra report e romanzo insegue, secondo noi, un debole slancio all’interno di un debolissimo perimetro ideologico, in “Nostalgia” il simbolismo è interamente concentrato nel tema del Nostos, il ritorno a casa annoverato tra i motivi letterari più antichi e diffusi: Felice, che ha lasciato da quarant’anni la città salvandosi dalla comunanza con il futuro criminale Oreste (Ragno, una sicurezza), vi rientra per rivedere la madre ma inconsapevolmente, grazie al dislocamento filmico del flashback, per portare sollievo alla propria condizione di déraciné, di sradicato: Martone s’impegna, dunque, a dare alla memoria una configurazione spaziale, composta non solo di ricordi bensì di pietre, bassi, vicoli, terrazzi, lucernari ancora esistenti oppure irrimediabilmente deformati. Questo passaggio dalla nostalgia mitizzata alla catarsi coscienziale corre verso lo showdown contro il boss come un Gary Cooper o un Glenn Ford correvano nei western classici a saldare i conti tra coraggio e codardia, magari confortati dalla rettitudine pugnace dell’uomo di chiesa non servile o colluso (chiaro il riferimento al reale don Loffredo di San Vincenzo alla Sanità). La ricerca del tempo perduto diviene, così, senza svolazzi retorici o letture contorte o faziose un viaggio senza uscite di sicurezza in “basso” o in “alto”, ma con la capacità visionaria di riuscire a vedere cose che ai più sfuggono nel labirinto della nostra odiosamata metropoli.