Bondiani di tutto il mondo (ri)unitevi! Chissà se a qualcuno verrà ancora in mente d’arricciare il naso sulla rilevanza dei ciclici ritorni di 007: magari lo esporrebbero al museo perché il tempo ha finito per rendere il duello tra cinefili e adepti del cinema d’essai vetusto suppergiù come quello tra Ettore e Achille. Sta di fatto che “No Time to Die”, venticinquesimo film della saga bloccato da un anno e mezzo a causa della pandemia, irrompe con la dovuta irruenza e la salvifica impudenza nel mercato reso asfittico dalla pandemia, misurandosi non più –come premesso- con un ridicolo green pass artistico, bensì sfidando la monumentale iconografia scaturita dai romanzi di Ian Flleming e la proliferazione inarrestabile delle agguerritissime varianti del cinema d’azione e avventura postmoderno. C’entra, inoltre, la fine dell’era Daniel Craig che alla quinta e ultima incarnazione nell’agente segreto più famoso dell’orbe terracqueo toglie il disturbo agli antipatizzanti rendendo, però, ancora più calzanti nonché espressivamente e drammaturgicamente inoppugnabili le motivazioni fisiche, psicologiche e finanche storiche del ribaltamento della sorniona e sensuale icona Connery.
Se i 163 minuti di durata potrebbero sembrare estenuanti, basta citare il prologo, un’oretta buona in cui il blockbuster un po’ anticato e un po’ aggiornato rischia di frastornare con un’overdose di sparatorie, antefatti e postille agli antefatti al livello dei precedenti e modesti “Quantum of Solace” e “Spectre” e al di sotto di quello dell’ottimo “Skyfall”; dopo quest’immersione in apnea o prova da sforzo, però, il regista Fukunaga –da noi indicato in tempi non sospetti come grande speranza hollywoodiana- riprende brillantemente le briglie del copione a cui ha sicuramente conferito verve, intelligenza e un’elegante velatura romantica il contributo di Phoebe Waller-Bridge autrice delle serie di culto “Killing Eve” e “Fleabag”. Non avrebbe avuto, a questo punto, senso elencare e spoilerare le successive, ottime e abbondanti acmi spettacolari (fatto salvo il mirabolante inseguimento girato ai Sassi di Matera nel segno del contrasto tra il supertecnologico e l’arcaico) e il relativo turbinio di vecchi e nuovi personaggi che fanno corona all’incedere del protagonista ridimensionato nella nota ma oggi pericolosa componente machista dalle nuove Bond- girls sempre bellissime (con riferimento extra ad Ana de Armas, cubana mozzafiato), ma nient’affatto disposte a fare da passivo controcanto al fascino di James.
La forza di questo ennesimo raid nei palcoscenici del mondo illuminati dalle cangianti sfumature fotografiche dello svedese Sandgren (non a caso Oscar per il musical “La La Land”) sta proprio nel fatto che i sentimenti umani –sebbene sotto forma di feticci sovranisti, totem sessuali, avatar politici- finiscono sempre per sopravvivere al contingente avventuroso, al canone del thriller, allo scatenamento dei complotti più efferati… Sarà per questo che un itinerario in apparenza così reboante e rodomontesco, tutto dedicato al desiderio delle platee di abbandonarsi ancora una volta all’epica, al mito, al rito riguarda sotto traccia principi limpidi e pragmatici: al cattivissimo Safin che si vanta d’averlo “reso obsoleto”, Craig/Bond risponde senza enfasi: “non lo sarò mai finché continuano a esistere quelli come te”.