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Napoli New York
Sommario: Una coppia di svegli ragazzini orfani nella Napoli del secondo dopoguerra, imbarcati clandestinamente su un piroscafo che fa rotta su New York e presi sotto l’ala protettiva da un cuoco afroamericano e un comandante italoamericano, affrontano una serie d’incontri/scontri, perdite/ricongiungimenti, mini love story e peripezie commoventi.
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Dai cineforum di film neorealisti alle logiche imperscrutabili del circuito commerciale. Il travaso -nel segno dell’inseguimento alla cometa Cortellesi- sta procedendo molto bene, anche perché Gabriele Salvatores ha infarcito “Napoli New York” con tutti, ma proprio tutti gli ingredienti consolatori e pedagogici che oggi dettano il protocollo del cinema d’autore fatto in casa. E pazienza se l’intera operazione -dalla sceneggiatura recuperata da un trattamento di Fellini e Pinelli datato 1948 (!) ai copiosi “prelievi” da Leone, Tornatore e Frank Capra (si canta persino It’s a Wonderful Life)- ripercorre un canovaccio affabile e oliato ma, ahinoi, alquanto liso: l’obiettivo è che il taglio catechizzi lo spettatore con i commi del politicamente corretto più smaccato, incluso lo smascheramento dell’American Dream operato con ben altro nerbo dai tempi ormai remoti della Hollywood Renaissance. Sembra, infatti, che il garbato cineasta non abbia potuto allestire di meglio dell’apologo ammaestrato di una coppia di scugnizzi (Lanzaro e Guerra) rimasti orfani nella Napoli del secondo dopoguerra, imbarcati clandestinamente su un piroscafo che fa rotta su New York e sopravvissuti sotto l’ala protettiva di un tenero cuoco afroamericano e soprattutto di un comandante italoamericano vintage alla Amedeo Nazzari (Favino). Con il seguito d’incontri/scontri, perdite/ricongiungimenti, mini love story e peripezie varie su cui si potrebbe scommettere prima di staccare il biglietto e in cui si scoprirà -temi sacrosanti, ma che stridono terribilmente con il tono della fiaba per età scolare- come poveri, donne, neri e italiani venivano vessati, discriminati ed emarginati. Puntando forte sulla simpatia sprigionata dai personaggi bambini (che parlano come adulti, mentre quest’ultimi recitano di preferenza sopra le righe) sottoposti al trattamento-Oliver Twist, facendo però a meno dell’umorismo nero dickensiano, si lascia scorrere col pilota automatico tutto il resto che finisce per suonare posticcio nonostante il grande dispiego degli effetti visivi grazie ai quali, peraltro, i costumi sembrano sempre lindi e pinti e persino il pulviscolo sembra sparso a bella posta dallo scenografo. Per non parlare delle tante situazioni trattate senza complessità bensì con il semplice inserimento di pantomime programmate: una per tutte quella particolarmente grossolana del processo all’italiana che rivendica con orgoglio di avere ammazzato (giustamente?) l’omaccio amerikano che la brutalizzava. Sì, perché nella patinatura narrativa generale non potevano mancare la tirata in ballo alquanto a casaccio del femminismo ante litteram e la retorica dell’approssimativo slogan da talk show dei migranti che una volta eravamo noi italiani.