Pubblicato il 13 Dicembre 2016 | da Valerio Caprara
0Naples ’44 – Colloquio Caprara-Mascilli Migliorini
Inizia giovedì in tutta Italia, dopo l’applaudito passaggio fuori concorso al festival di Roma, la carriera di “Naples ‘44”, il docufilm scritto e diretto da Francesco Patierno e prodotto da Dazzle Communication-Davide Azzolini con Rai Cinema. Si tratta della trasposizione dell’omonimo racconto diaristico di Norman Lewis, lo scrittore inglese scomparso nel 2003 che arrivò e operò come ufficiale aggregato alla Quinta Armata americana nella Napoli ancora in preda agli spasimi del massacro mondiale: la vividezza e l’intensità mai condiscendenti né crudeli di quelle memorie riescono, in effetti, a risaltare in un’originale messinscena e con un virtuosistico montaggio che –efficacemente contrappuntati dalla voce narrante di Benedict Cumberbacht nella versione internazionale e Adriano Giannini in quella italiana- fondono un pugno di sequenze girate ex novo con centinaia di spezzoni di rari filmati d’archivio e fotogrammi di film pertinenti come “Le quattro giornate di Napoli”, “Napoli milionaria”, “Paisà”, “Il re di Poggioreale” o “La pelle”. A questo proposito ci è sembrato assai stimolante vedere il film in compagnia di uno storico prestigioso come Luigi Mascilli Migliorini e confrontare a luci riaccese le sue impressioni con quelle, per così dire, di specifico ambito critico.
“Confesso d’essere stato molto colpito e in qualche momento persino commosso da questo vero e proprio racconto di formazione che, tra l’altro, coincide con l’asse portante delle mie ricerche e le mie riflessioni sul periodo che ritengo fondamentale per capire la storia della nostra città al di fuori degli stereotipi. Un’adesione” prosegue il professore che è anche un cinefilo competente e aggiornato, “motivata anche dai racconti di mia madre Giulia De Franciscis quando mi parlava di una guerra fatta di bombardamenti quotidiani e di ricoveri dove tutti potevano morire sotto le bombe dei nemici che ben presto avrebbero dovuto chiamare alleati”. Secondo Francesco Rosi certi scrittori come il J. H. Burns di “La Galleria” avevano percepito il trauma provocato dall’agonia di Napoli meglio dei napoletani stessi; ma in ogni caso non sono stati molti i film o i brani di film (penso a Rossellini, ma anche a “Carosello napoletano”, “Senza pietà”, “Polvere di stelle” o “Nel regno di Napoli” di Schroeter) in grado di tramandare la lacerazione prodottasi in profondità nel tessuto sociale.
“In effetti non è stato mai facile mettere a fuoco la città oppressa così a lungo dal ruolo non voluto di grande porto dell’Impero, un ruolo che l’obbligava ad assistere alle tristi partenze e agli ancora più tristi ritorni della gioventù che andava a combattere in Africa una strana guerra per un sogno d’Oltremare prossimo a trasformarsi in macerie della pietra e della memoria”. Lungi da te, credo, scaricare il martirio della città interamente sulle colpe dei liberatori/occupatori, il cui punto di vista nel libro e nel film è, peraltro, affidato a un’imparzialità venata di pietas e un pizzico di humour tipicamente britannici. “Tutt’altro. Non dimentico che gli orrori connaturati alla guerra sono stati la conseguenza prima della sciagurata alleanza stretta da Mussolini con il nazismo e poi dell’ignominiosa fuga del re e Badoglio che ha regalato a Napoli due anni in più di miseria, fame e umiliazione. Quello che mi sta a cuore sottolineare e che viene fuori, appunto, con inusuale evidenza dalla narrazione per immagini e musica è che la finzione di avere ‘vinto’ una guerra persa con tutto il suo seguito d’inflazione, corruzione, indigenza, criminalità, finì col devastare insieme al popolo e la plebe anche le classi alte e medie, la borghesia che s’era adattata, ma non piegata al fascismo”. Sono contrario a usare il cinema come sgabello di qualsiasi tesi, nobile o ignobile che sia. Però non posso fare a meno di chiederti se in questo senso “Naples ‘44” potrà servirci a definire un po’ meglio la città più indefinibile del globo. “Sì, quantomeno nel contrastare l’inerzia del ricordo che si rivolge giustamente all’Italia della Resistenza dall’accento inconfondibilmente settentrionale, ma che lascia al Mezzogiorno e alla sua capitale solo la piccola epopea delle Quattro giornate. La verità è che per noi napoletani non serve a nulla salmodiare all’infinito sulla nobile sconfitta della Repubblica del 1799: la vera frattura, la “ferita a morte” sono state inferte dal naufragio nel mare tempestoso di quel biennio, il mare in cui la borghesia nazionale e quindi la città sono annegate in maniera difficilmente redimibile”.