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Pubblicato il 28 Settembre 2024 | da Valerio Caprara

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Mastroianni centenario della nascita

L’abitudine d’inondare d’elogi gli illustri del passato fa correre il rischio d’indurre diffidenza o sazietà in che legge, vede, ascolta. Sarebbe un peccato se il fenomeno si ripetesse a proposito del centenario della nascita di Marcello Mastroianni, forse il divo di maggior spessore che il nostro paese ha regalato al mondo (non solo) del cinema. Nell’importante occasione, però, svanisce subito la tentazione di ricostruirne e glossarne la carriera tra teatro e schermo con l’indispensabile corollario di vita, amori e successi: solo nel dare una scorsa agli interminabili elenchi acclusi alle monografie, i cataloghi, le enciclopedie si viene presi da capogiri e stordimenti tanto essi spaziano e svariano al centro della storia dello spettacolo del Novecento. Prima di ogni altra considerazione, in effetti, esiste la diffusa percezione dell’ampiezza e varietà di suggestioni che l’uomo e l’attore ha incarnato nell’immaginario collettivo: basta per trarne conferma visitare la mostra “Marcello, come here” curata a San Servolo nella laguna di Venezia da Laura Delli Colli e e aperta sino al 9 gennaio dell’anno prossimo. Nella cui straripante offerta di foto scattate dentro e fuori dai set, è possibile rendersi conto di come il centinaio di ruoli che ha interpretato sono stati identità provvisorie, barriere dietro cui celarsi senza perdere l’aplomb di sorniona bonomia popolare, l’autoironia e la capacità trasformistica del professionista innato. Fedele alla classe e all’understatement adottati sin dagli inizi -da attore, come fu detto, “tanto grande da non accorgersene per niente”- MM non mutò mai le sue abitudini e continuò a dedicarsi ai film con l’affettuosa cura di un artigiano specializzato, orgoglioso ma modesto. È proprio per questo stile unico che un regista asprigno e beffardo come Ferreri gli ha cucito addosso una definizione memorabile: “Mastroianni è perfetto, ma lo sa nascondere. Il mio unico rimprovero è che non ha difetti”. Grazie alla personalità solida e terragna non ha avuto mai pour cause bisogno delle esasperate immedesimazioni pretese dal metodo Actor’s Studio” ma, come gli piaceva sottolineare spesso, è sempre riuscito a fingere senza sforzo e soprattutto senza farsene accorgere dal pubblico. Al proposito è utile notare come la sua ascesa come “bello”, distante dal modello in voga nei primi anni Cinquanta dei Nazzari, Vallone o Serato, coincise con la rimonta della produzione nazionale, di un cinema, cioè, che riusciva ad allargare la sua presa e sfruttare le sue peculiarità grazie all’assorbimento della stagione neorealista.

Una volta esclusi i tic del critico -come per esempio proclamare se preferisce “Divorzio all’italiana” a “Il bell’Antonio” o “Allonsanfan” a “Una giornata particolare”- è giusto rimettere a fuoco i due abbinamenti che gli vengono da sempre e per sempre attribuiti: quello con i capolavori felliniani e quello con la fama di sex symbol. Infatti anche se ha sempre combattuto contro il cliché di seduttore, non si può negare che le donne nella sua vita sono state tante e importanti, sovrapposte in una dimensione che spesso confonde i confini del grande schermo con quelli della realtà.

Il rapporto tra l’attore e il maestro riminese, che fu di duratura e intensa amicizia oltre che di formidabile collaborazione, iniziò quando il regista lo impose per il ruolo di protagonista in “La dolce vita”: già la lavorazione fu un’esperienza eccezionale perché consentì all’attore di calarsi in un ambiente, quello degli habitués e dei “paparazzi” di via Veneto, che non conosceva affatto; ma fu proprio l’immedesimazione nel giornalista disilluso e nauseato Marcello Rubini –il personaggio-guida del viaggio nel microcosmo affascinante e corrotto dell’aristocrazia e della borghesia della capitale- a configurare la sua immagine prima ancora dell’immenso successo ottenuto e delle roventi polemiche accese dal film. Così come, del resto, funzionò l’altro leitmotiv dell’indispensabile, tormentoso, eccitante rapporto con le donne incarnate dalla possessiva e materna fidanzata Emma (Furneaux), dalla ricca e perversa amante Maddalena (Aimée) e dalla giunonica, carnale diva americana Sylvia (Ekberg). Mentre “8 e mezzo” lo elesse definitivamente ad alter ego felliniano nel contesto di una sorta di seduta psicanalitica frizzante e istrionica, spiritualmente, oltre che fisicamente, consona all’inimitabile universo del maestro: come tramanda a futura memoria -probabilmente non gradita all’attuale campagna contro il vero o presunto patriarcato- la sequenza di Guido assediato dalla gelosia della moglie e dal narcisismo dell’amante che si rifugia nell’harem dove tutte le donne della sua vita, finalmente rasserenate, si prendono cura di lui e gli fanno il bagno in un enorme mastello. Significativi nello stesso senso sono anche il sodalizio con De Sica che consacra la coppia Mastroianni-Loren in glorioso servizio per undici titoli in quarant’anni e il trasferimento a Parigi per interpretare “Tempo d’amore” insieme alla bellissima Deneuve con la quale aveva inaugura una duratura relazione: la coppia glamorous, ricostituitasi nel corrosivo e sensuale apologo “La cagna”, fu anche allietata nel maggio del ‘72 dalla nascita della figlia Chiara, anch’essa oggi attrice e modella ancorché segnata da un inevitabile blocco edipico. Come esplicita il recente “Marcello mio” di Christophe Honoré in cui si traveste come il padre in “8 e mezzo” e finisce nella fontana di Trevi in un’imbarazzante caricatura di “La dolce vita”.

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