Pubblicato il 4 Settembre 2019 | da Valerio Caprara
2Martin Eden
Sommario: Reinterpretazione sui generis del romanzo di Jack London "Martin Eden", con una prima parte a mo' di patchwork tra rilettura colta della sceneggiata napoletana e riesumazione del gusto e il taglio dei film Italnoleggio anni Sessanta e la seconda rivoltata in una sorta di oratorio politico-filosofico dai mille spunti interni ed esterni al libro e altrettante auto-confutazioni.
1.3
“Seguì un lungo rombo: gli parve di scivolare lungo una china infinita, e in fondo in fondo sprofondò nel buio. Solo questo seppe. Sprofondava nel buio. E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo”. La frase conclusiva di “Martin Eden”, uno dei romanzi più illuminanti dello scrittore americano Jack London, era tra quelle più amate e citate della generazione dei baby boomers frantumatasi nella diaspora del Sessantotto, ma oggi sembra che proprio dall’infinita malinconia di quell’autobiografia in forma di fiction siano scaturiti anche nel nostro paese i percorsi esistenziali, politici, sociali più diversi oscillanti, per capirsi, dal terrorismo ai paradisi artificiali, dalle redazioni dei giornali alle direzioni delle aziende, dai cenacoli letterari alle associazioni umanitarie. Adattare “Martin Eden” per il film di Pietro Marcello in concorso alla Mostra di Venezia è stato, insomma, un gesto temerario compiuto dallo stesso regista in simbiosi con Maurizio Braucci non certo per ragioni di proporzioni, per così dire, artistiche, ma perché quel racconto che include una tragica formazione giovanile, una folgorante storia d’amore e una radiografia politica e sociale degli Stati Uniti d’inizio Novecento avrebbe fatalmente riportato in piena luce una figura estremamente complessa e contraddittoria, affascinante e disturbante, ma soprattutto oggi come allora a forte rischio di travisamenti e/o strumentalizzazioni.
Nella sua breve e tumultuosa vita, infatti, incredibilmente prefigurata in questo romanzo scritto e pubblicato a 33 anni, London –oltre che vagabondo, cacciatore di foche, pugile e corrispondente di guerra- è stato portatore di idee rivoluzionarie e reazionarie, discepolo fervente di un socialismo approssimativo, romantico e volubile e nello stesso tempo della teoria darwiniana della “lotta per la vita” incalzata da folate del pensiero di Proudhon e Marx, Spencer e Nietzsche. Non per nulla, solo per ricordare un revival recente, è l’autore preferito del ragazzo fuggiasco nella natura selvaggia protagonista del bestseller “Into the Wild” trasposto sullo schermo da un attore e autore antagonista come Sean Penn. Braucci, che è uno scrittore di acume e di nerbo, ne ha colto le assi portanti originarie –la nascita della cultura di massa, la lotta di classe, il dilemma etico dilaniante tra affermazione dell’individuo e consolidamento delle strutture societarie- ma poi ha girato al gusto e la poetica di Marcello la responsabilità di trapiantare la vicenda dalla California d’inizio Novecento a Napoli e di trasformarla in una sorta di fiaba “alternativa” (sic) dilatata all’inverosimile in un mare magnum storico e tematico fatalmente confusionario, pretenzioso, poetico quando vorrebbe essere polemico e viceversa.
Ne risente, purtroppo, anche il protagonismo a tutto campo di un bravo attore come Luca Marinelli, il rozzo marinaio che s’innamora di una ragazza altoborghese, lotta per riscattare l’handicap sociale e affronta aspre traversie passando dallo status di tribuno degli sfruttati a quello d’intellettuale ricco e famoso ancorché traditore dei propri slanci vitali, non sempre a suo agio nella dizione napoletana e spesso disorientato dal tourbillon psicologico e identitario. In effetti è il taglio, come dire, documentaristico-sperimentale di Marcello (tramandato da “Il passaggio della linea”, “La bocca del lupo” e il precedente film di finzione “Bella e perduta”) che secondo noi non s’amalgama piacevolmente nelle prolungate parti messe in scena secondo i canoni di narrazione tradizionali: può essere, certo, che una parte del pubblico gradisca le insistite contaminazioni a base di spezzoni seppiati della Napoli che fu con la relativa e compiaciuta overdose dei primi piani di volti sdentati e scavati, le teorie di panni stesi e i balletti di gioiosi piccirilli evocanti le sculture di Gemito, ma anche in questo caso non ci sembra che la coesione tra spettacolo e riflessione, estetica e metafora ne tragga particolari meriti o equilibri inaspettati. Magari lo sceneggiato Rai del 1979 diretto da Giacomo Battiato non era così pensoso e allucinato, però il repertorio musicale in vernacolo mixato sul deambulare dello spiritato Marinelli tra i vicoli del ventre di Napoli ce lo aveva risparmiato.