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Maria
Sommario: L'ultima settimana di vita di Maria Callas... I suoi ricordi, i suoi trionfi, i suoi tormenti e le sue ossessioni.
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Dopo avere diretto due film su Jacqueline Kennedy (“Jackie”) e la principessa Diana (“Spencer”), il regista cileno Pablo Larraìn chiude la trilogia con “Maria” cercando di illuminare i risvolti più oscuri del mito oversize della Callas con un approccio personale e immaginifico, ma inevitabilmente giocato quasi tutto sulla performance della protagonista. L’ardua scommessa può dirsi vinta perché se i pregi del film prevalgono su qualche difetto, la quarantanovenne Angelina Jolie risulta davvero carismatica in un’autentica maratona di sguardi, espressioni e gesti che stupirà anche il pubblico e la critica che, non senza ragione, la ritenevano finora un personaggio poliedrico e mondano -non a caso più volte citato nelle liste delle donne più influenti e potenti del mondo- piuttosto che un’attrice d’alto livello. Non è dunque superfluo sapere che per interpretare la Divina ha lavorato per mesi strenuamente, concentrandosi soprattutto sull’allenamento vocale, la respirazione e la postura e che l’ampio ricorso del film al repertorio operistico punteggiato dai reiterati trionfi nei teatri d’opera più prestigiosi del mondo, il Covent Garden, il Met, la Scala, è il risultato di un mix di tracce multistrato tra le registrazioni originali del soprano e i propri inserti cantati molto sofisticato e assai diverso dal consueto “lip-syncing” (sincronizzazione labiale) o il banale karaoke.
A esclusione del prologo e il finale ambientati nello sfarzoso appartamento/prigione parigino dove la Callas muore all’età di 53 anni, il film procede per flashback, frammenti, ellissi, ricordi dall’infanzia infelice alla love story con Onassis generati dagli incubi della protagonista quando si è allontanata dalle scene da oltre quattro anni a causa del pessimo stato di salute causato (anche) dalle medicine prese nel disperato sforzo di recuperare la celebre e inimitabile estensione e agilità della voce. Il passato che ritorna nelle sue miserie e i suoi splendori è stimolato, così, dall’intervista del giornalista Mandrax (Smit McPhee) ovvero uno dei fantasmi generato dalla mente di Maria visto che è anche il nome del farmaco sedativo da cui era maggiormente dipendente noto negli Usa col nome di Quaaludes. Lo spettacolo avvince proprio perché da ogni sequenza si sprigionano l’alterigia malinconica e il senso di elusività che rendono credibili le battute che hanno deliziato e continueranno a deliziare legioni di fan in tutto il mondo, a partire da quella emblematica diretta a un cameriere: “Non ho fame, vengo nei ristoranti per essere adorata”. Larraìn dà il suo meglio pedinando la Callas mentre vaga per Parigi materializzando fondali fantasmagorici, trance spasmodiche, spartiti e melodie immortali che si svolgono solo nella sua psicosi o quadri che prendono vita come per finzione come, per esempio, quello sublime in cui esegue “Madama Butterfly” al vero Trocadéro mentre una folla di geishe in costume ondeggiano sotto una pioggia battente. Il merito va ovviamente anche alle immagini del grande Lachman, il direttore della fotografia che utilizzando un mix strutturato di 35 mm, 16 mm e Super 8 mm insieme a lenti vintage, tramanda la Ville Lumière in tenui tonalità autunnali altamente evocative del periodo e passa al bianco e nero o al colore granuloso quando trasfigura le sue allucinazioni. Un appunto che si potrebbe muovere al regista e allo sceneggiatore Steven Knight è quello di avere posizionato un’icona preziosa come in una teca-schermo che ci invita, cioè, a guardarla e magari a esaminarla con la lente d’ingrandimento, ma non “a toccarla” nel senso di capirla in profondità e di proporci, al di là della leggendaria sintesi di talento ed eleganza e della commovente resistenza di un corpo sempre più debole alla mercé dell’arte, l’amore e il potere, un biopic a stralcio un po’ glaciale e distaccato a causa della discrepanza che si percepisce tra la star la cui celebrità ha eclissato i successi e la donna dotata di una personalità imperiosa anche quando non giganteggia su di un palco. L’equilibrio drammaturgico, vogliamo dire, non sembra del tutto giusto quando provi più compassione per il fedele personale di casa (Favino e Rohrwacher) che la ama e la protegge piuttosto che per la poverina che gli stessi hanno appena ritrovato caduta a terra accanto al pianoforte. Infatti la tenerezza trasmessa dalla sequenza in cui la sorella (Golino) l’esorta a lasciarsi alle spalle una buona volta l’angoscia che la perseguita da sempre sottolinea involontariamente quante poche opportunità siano concesse allo spettatore di entrare in un’autentica intimità con colei di cui Carmelo Bene disse: “Sarebbe un oltraggio definirla miseramente una ‘grande cantante’. Era, ed è, l’arte”. Ciò non vuol dire, come premesso, che il film non sia trascinante, che l’interpretazione della Jolie non sia impressionante e che questa versione sia molto meno convenzionale rispetto a “Callas Forever” di Zeffirelli con Fanny Ardant.
MARIA
Biografico/Drammatico – Italia/Germania 2024
Un film di Pablo Larraìn. Con: Angelina Jolie, Haluk Bilginer, Kodi Smith McPhee, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Valeria Golino