Pubblicato il 22 Dicembre 2020 | da Valerio Caprara
0Mank
Sommario:
3
Che bello, i critici se le suonano come ai vecchi tempi. Ma anche gli spettatori di “Mank”, ennesimo colpo messo a segno da Netflix pigliatutto, non si tirano certo indietro: “Visto stanotte. Meraviglioso”, “Bello ma faticoso. Primo tentativo fallito col mio ragazzo che dormiva e si svegliava continuamente. Poi siamo arrivati in fondo: merita”, “Insopportabile”, “Imperdibile”, “Lo ammetto, sono una spettatrice terra terra: ma mi sono annoiata, non capivo i molteplici riferimenti a persone e personaggi. Addetti ai lavori, coraggio!”, “Anche mio marito pollice verso. Per rifarsi subito dopo si è sparato due film coreani” (addirittura ndr)… Nella valanga di giuste preoccupazioni e piagnistei di maniera che sta sommergendo la catastrofica crisi del cinema provoca, in effetti, un piacere inatteso accorgersi che certi titoli sono ancora in grado di attizzare dibattiti mediatici, rimarcare le differenze di gusti e sentimenti dell’audience e mitigare il luogo comune che descrive come mummie tutti coloro che consumano fiction restando chiusi in casa. Tutto sommato, dunque, non è un male che uno dei più seri candidati all’Oscar 2021 si sia sottratto al predominio delle dissertazioni filologiche e i ponderosi saggi in gergo. Il maestro David Fincher –che resta tale a prescindere, non fosse altro perché autore di film capitali come “Seven”, “Fight Club” o “The Social Network”- vi racconta con inesausti sfoggi retrò e toni tra il polemico e il grottesco l’episodio apicale della vita di Herman J. Mankiewicz detto Mank, fratello maggiore del più noto regista Joseph, brillante giornalista e critico teatrale newyorkese, giocatore di poker e bevitore in prima fila tra gli anticonformisti intellettuali d’oltreoceano degli anni Venti e Trenta che nel 1940 scrisse la sceneggiatura di “Citizen Kane”, in Italia “Quarto potere”, ovvero il capolavoro di Orson Welles ispirato alla reale figura del magnate della stampa William Randolph Hearst. Ed è il sessantaduenne Gary Oldman, che riesce a togliersene una ventina sullo schermo grazie a uno di quegli exploit trasformistici adorati sempre e comunque dai votanti dell’Academy, a incarnarsi senza risparmio di effetti nell’identikit biografico su cui il regista fa ruotare il bestiario della Hollywood vintage, una bella galleria di mascalzoni, avventurieri, avidi, viziosi, corrotti eppure spesso illuminati nel sapere entrare in sintonia con l’immaginario collettivo. Il bianco e nero ad altissima definizione fa scorrere, così, un estenuante andirivieni temporale -infarcito di piani sequenza, flashback, didascalie realizzate in sovrimpressione come se fossero le battute del dattiloscritto di una sceneggiatura e un superlativo lavoro sul suono distorto per riecheggiare proprio i classici degli anni Quaranta- che rimanda all’epocale passaggio dal muto al sonoro in modi figurativamente impeccabili; però, stranamente, gran parte dei fatti riguardano le sofferenze di “Mank” a letto con una gamba ingessata in una casa sperduta nel deserto californiano affittata per farlo lavorare al copione di “Quarto potere” sotto controllo dell’ingombrante maestro più figlio di buona donna che genio. Proprio nel sottofondo, per così dire, ideologico che a poco a poco intacca la compattezza -già precaria per overdose di citazioni e strizzatine d’occhio, una verbosità scoraggiante per i non adepti – della rievocazione risiede la magagna del film agli occhi di molti critici e parzialmente anche del sottoscritto: la contrapposizione troppo rozza e manichea tra l’artista incompreso tutto trasgressione e irrequietezza e gli studios spietati, ignoranti e fascistoidi popolati da tycoon caricaturali e mestieranti sedicenti artisti come lo stesso Welles (questa poi…). Peccato perché la straordinaria performance di Oldman meritava d’essere portatrice di un messaggio un po’ più spigliato di quello caro ai critici neo e vetero impegnati, alle storie del cinema redatte al ciclostile e alle anime belle che ci tengono tanto –come accade in questi drammatici mesi- a dichiararsi urbi et orbi orfane di nutrimento culturale, anche pensando, per contrasto, al sardonico cinismo a cui ricorrono i fratelli Coen disarticolando in “Barton Fink” lo stesso periodo e lo stesso inferno hollywoodiano. In ogni caso uno degli spiritosi duellanti pro/contro “Mank” ha divulgato la sua scherzosa lista dei testi da recuperare e studiare per potere guardare il film in sicurezza: la biografia di Mank scritta da Meryman, il libro-intervista Il cinema secondo Welles di Bogdanovich, il reportage firmato a suo tempo dalla grifagna critica Pauline Kael su cui si basa la sceneggiatura del film ecc. Sul sussidio di una simile cinefilia compulsiva non è tuttavia realistico sperare.
MANK
BIOGRAFICO/DRAMMATICO – USA 2020
Regia di David Fincher. Con Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Charles Dance, Arliss Howard, Tuppence Middleton