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Pubblicato il 31 Marzo 2024 | da Valerio Caprara

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Le memorie di Marlon

“In preda a non si sa che tormenti, Brando scatta”. Così scrisse un critico francese sintetizzando in una sola frase l’uomo e l’artista. E in effetti tutto ciò che riguarda uno dei più grandi attori cinematografici di sempre richiama alla mente questo verbo: l’arte e il gossip, il pubblico e il privato, le amicizie e gli amori, i vizi e le virtù assomigliano davvero a un eterno ed estenuante liberarsi dalla tensione, al movimento del percussore quando si preme il grilletto, al balzo della belva ferita in trappola. Il suo mentore Elia Kazan non a caso dichiarò: “Era come dirigere un animale geniale”. Per avvicinare la misteriosa e struggente mitografia del personaggio e in occasione dei 100 anni dalla nascita diventa, così, un autentico regalo ritrovare in libreria l’autobiografia scritta nel 1994 insieme a Robert Lindsey Le canzoni che mi insegnava mia madre (La nave di Teseo, pp.496 + pp.64 di appendice fotografica, 20 euro), impreziosita dall’ottima traduzione di Annabella Caminiti e l’appassionata prefazione di Giulio Base. La cui prima considerazione sembra già definitiva per come aggiorna agli occhi del cultori odierni l’idea un tempo cara solo a un ramo della critica, quello generato dalla “politique des auteurs” parigina: “La notte in cui debutta, a soli ventitré anni, interpretando il ruolo di Stanley Kowalski nel dramma di Tennessee Williams “Un tram che si chiama desiderio”, il lavoro dell’attore cambia per sempre”. Se, però, il “metodo Brando”, cioè l’immedesimazione fatta di silenzi, borbottii e infine esplosioni, è stato subito idolatrato e imitato nel mondo e poi preso a modello sino ai giorni nostri, soltanto in questa confessione a cuore aperto, quest’operazione chirurgica cruenta inflitta all’anima e la carne, emergono l’inesausta voglia di capirsi e affrancarsi dai traumi dell’infanzia, le pulsioni autodistruttive, il disprezzo per il suo stesso successo e quello di stampo puritano per il denaro che ne deriva e le ribellioni contro tutti coloro (compreso i capi, i potenti, i superiori di ogni ambito e risma) che rifiutano d’entrare in sintonia con il suo selvaggio, oscuro, dolente senso della vita.

Leggere -verbo che in questo caso non può che trasformarsi in divorare- le memorie di Brando non può concedere ai settari il piacere di concordare o schierarsi dallo stesso lato della barricata perché fatti e opinioni vi fluttuano come un mare in tempesta, sgorgano senza filtri o opportunismi, s’impennano in acmi nevrotiche e poi si acquetano in malinconica rassegnazione e soprattutto non arretrano davanti a nessuna occulta o palese incoerenza… Dalle sbronze della madre nella grande casa di Omaha nel Nebraska al padre commesso viaggiatore taciturno, prepotente, donnaiolo che lo ignora e non smette di considerarlo un buono a nulla: una famiglia in cui, a suo terribile parere, “non c’è mai stata nessuna forma d’indulgenza” e la presenza più tenera era costituita dalla giovane e sensuale governante mezzosangue indonesiana. Dalle precoci e poi sempre più fameliche, richieste o pretese relazioni sessuali e sentimentali con le donne, comprese quelle sposate e le centinaia con cui, sempre a suo dire, non ha trascorso “più di due minuti” al pessimo rendimento da adolescente in una scuola di Libertyville di cui assicura di essere stato “una delle pecore nere”. Dalla vita da bohémien a New York, quando dopo avere sognato di diventare un ballerino di danza moderna s’iscrive ai corsi della New School’s Dramatic Workshop e conosce la mitica Stella Adler che gli inculca il germe, anzi l’ossessione della recitazione alla frequentazione dell’Actors Studio e il fatidico incontro con il “metodo Stanislavskij”, Strasberg e Kazan. Da questo momento in poi si potrebbe credere che le vicende più eclatanti che hanno caratterizzato la figura di Brando ricalchino i dati che ce ne siamo fatti in virtù dell’immagine di uno degli uomini più conosciuti del ventesimo secolo. Neanche per sogno. L’odio per il cinico potere degli studios hollywoodiani, il ripudio del privilegio Wasp (bianco anglosassone protestante), la scelta politica di diventare militante a tempo pieno delle lotte dei neri e i pellerossa e persino il ritiro a Tahiti circondato da donne e bambini asiatici o immigrati finiscono per illuminare da un punto di vista inedito e pregnante l’essenza più intima racchiusa nei personaggi dei cult movie non finiremo mai di amare, dal paraplegico di “Il mio corpo t’appartiene” al maschio alfa di “Un tram che si chiama desiderio”, dallo Zapata di Kazan al motociclista attaccabrighe di “Il selvaggio”, dallo stoico portuale del capodopera “Fronte del porto” all’ufficiale nazista redento dalla morte di “I giovani leoni”, dallo sceriffo garantista di “La caccia” al cripto omosessuale di “Riflessi in un occhio d’oro” fino al totemico Don Vito Corleone di “Il Padrino”, il rapinoso amante di “Ultimo tango a Parigi” e il rinnegato colonnello Kurtz di “Apocalypse Now” mortifero signore e padrone della giungla. Le rivelazioni  del primo e autentico antidivo assumono, dunque, il valore di un moderno autodafé trascritto al magnetofono, le cui motivazioni e scelte non smettono di ripresentarcelo di volta in volta nella luce di profeta disarmato, irritante egocentrico, rivoluzionario anti sistema, paladino degli umili e gli oppressi, stella polare di tutti i mostri sacri da Dean a Newman, da Redford a McQueen, da Hoffman a De Niro, Pacino e Nicholson. Larger than life, più grande della vita sempre e comunque.       

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