Pubblicato il 28 Gennaio 2020 | da Valerio Caprara
2L’amica geniale nelle sale cinematografiche
Sommario:
E’ comprensibile, ma forse non tanto propizia l’iniziativa di fare uscire per tre giorni nelle sale (da oggi a mercoledì) i primi due episodi della seconda stagione di “L’amica geniale” che andranno in onda il 10 febbraio su RaiUno. Al di là, infatti, delle reazioni da tweet del livello di “era meglio il libro” o “me le immaginavo diverse”, è possibile che le debolezze della serie di Saverio Costanzo tratta dal best-seller di Elena Ferrante si evidenzino o amplifichino a prescindere dagli strascichi dell’eterno discorso sulle differenze tra opera letteraria e trasposizione filmica. Il problema sta proprio nell’identità cinematografica che è già precaria in tv per ragioni linguistiche intrinseche e che sul grande schermo sbiadisce ulteriormente rischiando di far perdere al romanzo uno dei pilastri del suo grandioso successo ovvero la tensione verso l’autenticità. Ricordiamo brevemente che l’ossatura del secondo libro intitolato “Storia del nuovo cognome” rievoca il complicato, doloroso e tumultuoso passaggio delle protagoniste Lenù e Lila -profondamente amiche nonostante o forse grazie alla radicale differenza dei caratteri- dall’infanzia alla giovinezza nel contesto di un rione proletario, di Napoli e dell’Italia che cambiano sulla spinta del miracolo economico e delle nuove consapevolezze sociali, familiari, sessuali, politiche e culturali liberate dalla fine del lungo dopoguerra. Senza alcun intento di minimizzare gli encomiabili sforzi di una grande co-produzione internazionale ci sembra, però, che lo stigma delle fiction Rai e/o Mediaset sia stato ancora capace d’imporsi su un regista che in precedenza aveva mostrato tutt’altro coraggio sperimentale.
Quello che si vede materializzarsi in un set allestito con una buona volontà non pari all’effetto ottenuto –nell’isolato tutto è lindo e pinto, persino il carretto del fruttivendolo e il manifesto del Pci in bella vista all’angolo del palazzo- è un microcosmo artefatto, senza le prese d’aria drammaturgiche congegnate dalla Ferrante nonché raccontato con un andamento pedissequo, una “bella fotografia”, un diligente copia-incolla in cui si agita quasi a comando un’umanità schematica, con i vari personaggi che accompagnano il percorso delle ragazze ridotti a funzioni, ciascuno con la sua brava etichetta rispondente a un didascalismo francamente eccessivo anche rispetto alle esigenze dell’ampio contatto col pubblico. L’afflato epico ottenuto nelle migliori pagine del romanzo con una strategia narrativa a contrasto -quella dell’introspezione minuziosa e del flusso di coscienza personalizzato- si trasforma, così, in una sorta di neorealismo postumo “for dummies”, per negati che, purtroppo, non gode neppure del jolly rappresentato nella prima stagione dalle commoventi bambine scelte per impersonare Lenù e Lila. Nessuna colpa, ovviamente, va ascritta a Margherita Mazzucco che interpreta l’amica studiosa, cocciuta e talvolta catatonica nei suoi imbarazzi e a Gaia Girace che è l’amica geniale malmaritata ed esposta ai violenti contraccolpi provocati dall’indole ribelle, ma nessuna delle due sembra messa in grado, specie quando il dialogo esige di alzare i toni, di sostenere il fardello delle ingenti tematiche, a cominciare dal rapporto delle donne con la figura materna, il proprio corpo e le iniquità dell’ordine patriarcale il cui femminismo pugnace sembra a volte risolto con lo stesso piglio vittimistico di un “Luisa Spagnoli”, “Il bello delle donne” o “La dottoressa Giò”; succede così, tra l’altro, che anche il senso della circolarità del tempo, congegnato dalla Ferrante per non chiedere né ottenere risposte, si ritrovi affidato in toto alle esternazioni della voce fuori campo di Alba Rohrwacher. Ultime, ma non poco scomode, le valutazioni da attribuire al ruolo preponderante della città come chiave realistica e insieme metaforica della saga: se si levano puntualmente aspre proteste contro il filone Gomorra con la certezza che si tratti di un bieco complotto per venderci allo straniero, come la mettiamo con il culto di massa del libro nato e cresciuto in sintonia con l’immagine pittoresca di Napoli coltivata negli Usa? Molti assicurano, poi, che gli stereotipi cattivisti della fiction nuocerebbero alla Suprema Diversità dell’odiosamata metropoli, però non scherzano affatto anche quelli progressisti/cartolineschi.