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Pubblicato il 24 Gennaio 2020 | da Valerio Caprara

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La scomparsa di Terry Jones

La Brexit era lontana, ma i sei ragazzacci del  “Monty Python’s Flying Circus” (comprendente un unico americano, Terry Gilliam) in qualche modo l’avevano già esorcizzata tra il 1969 e il 1974, quando le quattro stagioni dell’omonima serie tv avevano disseminato i germi di una satira antitetica al quieto vivere del ossequioso suddito britannico. E già allora Terry Jones, scomparso ieri a 77 anni, occupava un ruolo fondamentale nel gruppo inglese destinato a rivoluzionare uno dei generi basici dello spettacolo introducendo prima in teatro, poi sul piccolo schermo e infine al cinema uno humour aggressivo e iconoclasta, caratterizzato da un taglio in apparenza molto grossolano eppure culturalmente sottile e pervicacemente premeditato, debitore com’era del doppio imprinting universitario di Oxford e Cambridge dove quasi tutti i componenti si erano formati. Nato nel ’42 a Colwyn Bay e orgoglioso del suo puro sangue gallese, Jones entra alla BBC e lavora per i programmi destinati ai ragazzi prima d’identificarsi insieme a Palin, Idle, Gilliam, Cleese e Chapman nella sigla Monty Python che certifica la libertà creativa del celebre programma strutturato come un semplice seguito di sketch generati, però da una sorta di spiazzante “flusso di coscienza” supportato dalle animazioni di Gilliam (in Italia la serie è stata trasmessa su Italia 1 nei primi anni 90).

Scrittore versatile soprattutto in coppia con Palin, ma anche guitto irresistibile specializzato nei travestimenti femminili, il gallese spinge per accettare il richiamo del cinema e, anche se tre anni prima una selezione degli episodi del “Flying Circus” era stata raccolta nell’antologia “E ora qualcosa di completamente diverso”, dirige nel ‘74, stavolta in collaborazione con Gilliam, “Monty Python” ovvero un diseguale e sin troppo sgangherato calderone di scenette grottesche dedicate alle tragicomiche peripezie di Re Artù i suoi cavalieri. Risultò disastrosa, per di più, l’idea della versione italiana di stravolgere i dialoghi originali con un uso sconsiderato dei dialetti. Confortato dal successo commerciale, il gruppo affida al solo Jones la regia dei due più ambiziosi titoli successivi, “Brian di Nazareth” (’79) e “Monty Python il senso della vita” (’83): il primo, prodotto da George Harrison e distribuito da noi nel ’91, è una goliardica presa in giro di tutte le religioni del mondo, programma allora meno pericoloso di oggi ma in ogni caso coraggioso; il secondo, Premio speciale della giuria a Cannes, è un intarsio più equilibrato di gag nonsensiche e nichiliste che, accanto a brani irresistibili, talvolta impregnati di un suggestivo spirito visionario, non manca di concedersi acmi come quella della sequenza –molto più greve e meno fumettistica di quella simile recitata da Villaggio- del ciccione che s’ingozza e vomita incessantemente sino ad esplodere. Autore di pregevoli sceneggiature (“Labyrinth”) e regista di film sia congeniali (“Personal Services”), sia di genere diverso (“Erik il Vichingo”) nonché documentarista specializzato in storia medievale, Jones riesce a riunire, sia pure solo in voce, i vecchi compagni in “Un’occasione da Dio” (2015) prima di arrendersi alla grave e invalidante patologia che lo ha portato alla morte.

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