Pubblicato il 8 Maggio 2018 | da Valerio Caprara
0La scomparsa di Olmi
Un estremista della semplicitá, il poeta dei contadini e degli operai, il narratore più umanamente coinvolto con i suoi personaggi. Il cinema italiano piange Ermanno Olmi, scomparso ieri a 86 anni, con la consapevolezza di avere perduto un autore insostituibile non solo per il talento e la versatilitá, ma soprattutto per le radici, la formazione, la coerenza e la moralitá con cui ha contrassegnato oltre cinquant’anni di carriera: rincorrendo e realizzando, infatti, i sogni del giovane cinèfilo bergamasco, poi ragazzo della milanese Bovisa e infine adottato altopianese d’Asiago, Olmi è stato in grado di rappresentare da un’angolatura inconfondibile sia la progressiva sparizione dei valori della cultura cattolica contadina, sia il travaglio delle mutazioni e le omologazioni subite dal proletariato urbano. Se nel giorno della scomparsa è normale che i media tramandino l’alto profilo professionale dell’Olmi insignito di una Palma d’oro, due Leoni veneziani e un’infinitá di David e Nastri, è indispensabile ricordare che la sua strada non è stata spianata sin dall’inizio perchè all’epoca dell’esordio al crepuscolo dei ’50 fino alla consunzione nell’estremismo dello tsunami sessantottino il suo identikit è stato tenuto in sospetto d’ambiguitá e non era affatto scontato per i cineclub programmare la tenera storia d’amore di “Il posto” invece della “Corazzata Potemkin” o “Il posto delle fragole”.
Aperto alla vita e al convivio, maestro senza aureola di discepoli allenati all’autosufficienza tecnica piuttosto che ai precetti teorici -essendo stato un filmaker totale, spesso sceneggiatore, produttore, scenografo e anche direttore della fotografia- Olmi ha praticato l’intransigenza dell’artista, eppure la sua carriera inizia quando viene assunto come fattorino alla Edisonvolta, dove riesce a farsi strada arrivando a fondare una Sezione cinema che diventerá famosa per la qualitá e la modernitá dei suoi documentari che vanno ben oltre lo scopo originario di promozione dell’attivitá aziendale. Dopo avere girato l’esile quanto raffinato racconto d’amicizia “Il tempo si è fermato”, fonda con alcuni amici, tra cui spicca il futuro caposcuola della critica cinematografica Tullio Kezich, la societá di produzione “22 dicembre” per la quale scrive e dirige nel ’61 proprio “Il posto” che, rispetto all’impianto neorealistico, espone un sentimento di condivisione e sensibilitá umane molto piú raccolto e intimo. Dunque Olmi è ormai apprezzato come “cineasta cattolico” e non sorprende il fatto che tra il ’65 e il ’77 firmi titoli come “E venne un uomo”, biografia non agiografica di Papa Giovanni XXIII, “Un certo giorno”, “I recuperanti” o “La circostanza” che, al di lá della loro alterna incisivitá, propugnano una visione del cinema come surrogato spirituale della vita, omaggio alla memoria degli antieroi della quotidianitá, traduzione più profana che sacra del culto per l’intangibilitá della natura. Il film che segna l’apice del suo non agognato successo è, peraltro, “L’albero degli zoccoli” (1977), girato nella sua terra e recitato dagli attori non professionisti in stretto dialetto bergamasco tanto da essere sottotitolato anche per il circuito nostrano: cronaca non edulcorata della dura esistenza di quattro famiglie di contadini padani di fine Ottocento e vincitrice a sorpresa a Cannes, questa omerica rievocazione di un mondo destinato alla sparizione incarna secondo noi la grandezza e il limite dell’autore. Padrone assoluto di ogni inquadratura e di un ritmo incredibilmente omogeneo a quello delle opere e i giorni che si materializzano sullo schermo, Olmi utilizza la nostalgia come arma impropria contro i “moderni” modelli di vita omologati che gli fanno orrore e metafora contro la religione ufficiale secondo lui allineata sulle esigenze del neocapitalismo consumistico. Accusato a suo tempo di “trascurare” le ideologie progressiste, si riscopre, insomma, ideologo un pò troppo rigido e scoperto: una peculiaritá nociva alla successiva produzione che, si condivida o meno la sua esplicita adesione alla Chiesa “autentica” del cardinale Martini, soffrirá in più di un’occasione dell’esigenza di anteporre la retorica del rapporto umano e del primato degli umili sugli intellettuali al rischio delle emozioni e alla libertá della fantasia. In ogni caso nonostante la terribile malattia che ne ha minato progressivamente il fisico, ha mantenuto salda l’indomita personalità ed è anche per questo che importa poco prendere le distanze da film malfermi come “Il segreto del bosco vecchio”, “Centochiodi” o “Il villaggio di cartone” e compiacersi di abbaglianti riuscite come “Il mestiere delle armi” (2001), non solo il suo primo film epico, ma anche quello stilisticamente più libero e iconograficamente più potente. I critici dell’ultima generazione che non riuscivano più a entrare in sintonia con la sua sete di veritá assolute tornarono a celebrarlo chiamando in causa Rossellini e Tarkovskij. In realtà Olmi, sperimentatore e cultore di un linguaggio personale anche a costo di trasgredire l’inesausta fede cristiana, assomiglierá per sempre solo a Olmi.