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Pubblicato il 5 Febbraio 2024 | da Valerio Caprara

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La scomparsa di Norman Jewison

Alla fine degli anni Sessanta, quando il cinema americano ribolliva all’acme della Hollywood Renaissance, Norman Jewison era uno dei professionisti collaudati ma adattabili che si tenevano a galla sulla scia dello storico rinnovamento. Il regista deceduto novantasettenne lo scorso 20 gennaio nella sua casa di Los Angeles, infatti, realizza proprio nel ’67 un poliziesco in sintonia con i fermenti che stanno dilagando nel paese interpretato da un ispettore nero dell’FBI (Poitier) e un collega sceriffo bigotto e razzista (Steiger) costretti a collaborare per risolvere un caso di omicidio in Mississippi: “La calda notte dell’ispettore Tibbs” destinato grazie al taglio realistico e il genuino slancio progressista a ottenere cinque Oscar, di cui uno al montatore Hal Ashby, di lì a poco uno dei nomi di spicco della nuova onda capeggiata dagli Spielberg, gli Scorsese e i Coppola. Nato a Toronto nel 1926, il futuro candidato sette volte all’Oscar si forma come attore e scrittore a Londra prima di approdare alla rete statunitense CBS ed esordire sul grande schermo nel ’63 con “Venti chili di guai e una tonnellata di gioia” con Curtis a cui seguono una serie di affini e innocue commedie rosa, peraltro girate con mano sicura e attori di grido come Doris Day e Rock Hudson (“Quel certo non so che”, “Non mandarmi fiori!”). La svolta di carriera arriva un paio d’anni dopo grazie a “Cincinnati Kid”, grande successo benché penalizzato dallo scomodo confronto col precedente “Lo spaccone” con l’emergente Newman, in cui nella New Orleans anni Trenta si destreggiano tra azione e farsa un manipolo di professionisti del poker ed eccellenti interpreti come McQueen, Robinson e Malden. Da quel momento il suo nome diventa uno dei preferiti dai produttori vecchi e nuovi perché in grado di mettere in scena anche i copioni più complessi senza voli pindarici o incertezze: “Ho sempre cercato di mostrare l’umanità come fallibile, sensibile, confusa, fuorviata ma redimibile”. È esattamente il caso dell’iconico ispettore Tibbs (a cui seguirono due sequel), ma anche di “Il caso Thomas Crown” di nuovo con McQueen, la trasposizione del musical sui pogrom sovietici contro gli ebrei “Il violinista sul tetto” e l’opera rock “Jesus Christ Superstar”, parafrasi cantata, folle e glam della Passione attribuita a un Gesù hippie e pacifista. Ancora impregnato del generoso ribellismo del tempo, ma insieme proiettato verso il solido cinema di mestiere che tornerà in auge negli Ottanta, “Rollerball” (’75) con Caan è un indemoniato crossover tra la fantascienza e il film sportivo imperniato sulla profetica e sinistra metafora delle discipline agonistiche come valvola per scaricare le pulsioni autodistruttive della società. Con “F.I.S.T.” (’78), in cui Jewison affida allo Stallone “impegnato” la figura di un sindacalista degli autotrasportatori assassinato nel contesto dei torbidi patti padroni-mafia, iniziano una serie di titoli accettabili ma non più memorabili come “… e giustizia per tutti”, “Storia di un soldato”, “Agnese di Dio”, “I soldi degli altri” o “Hurricane” –alla fine saranno oltre 40 i film e i programmi tv firmati in carriera- con l’eccezione dell’incantevole commedia di amori ed errori “Stregata dalla luna” (’87), apologia della passione adulterina nel cuore di una tradizionalista famiglia italoamericana su cui svetta l’indimenticabile e oscarizzata performance della trasgressiva cantante Cher.         

 

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