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La scomparsa di David Lynch
Nel giardino del “Quattro Fontane”, l’hotel di charme più esclusivo e più vicino al Palazzo del Cinema, David Lynch mi autografa con una penna per incisione e una grafia obliqua e sottile una sua foto sul set: è il 2006 e alla Mostra del cinema di Venezia gli hanno appena assegnato il Leone d’oro alla carriera. Un flash che non risale a un trascurabile memoir personale, bensì il suggello di un culto che aveva formato e temprato una generazione di cinefili destinata a diventare egemone sulle ceneri della critica ideologica in auge dal dopoguerra. Lynch, scomparso ieri a settantotto anni in seguito alle complicazioni di un cronico enfisema polmonare, peraltro, non è stato solo un regista sperimentale come Lang o Hitchcock, bensì un creatore che ha perseguito con straordinaria abilità e resistenza dentro e fuori il sistema hollywoodiano i percorsi e le forme della propria immaginazione. L’interconnessione incessante e incontrollabile tra l’artificio del cinema e le visioni fantasmatiche della psiche è riuscita a infondere, del resto, anche nei corti, nei documentari e nelle innumerevoli performance d’attore una vera e propria reinvenzione delle modalità e delle peculiarità della narrazione. Ed è esattamente per questo gesto artistico che la sua opera pluristratificata quasi mai è risultata descrittiva o figurativa, ma sempre ipnotica, immersiva, emozionale proprio in quanto eccessiva.
Nato a Missuola nel Montana nel 1946, Lynch dopo aver trascorso molti anni alternando l’attività di pittore a quella di autore di cortometraggi animati acquista una subitanea notorietà grazie all’opera prima “Eraserhead – La mente che cancella” (1977), vista e celebrata sia in America, sia da noi grazie alle proiezioni nei circuiti d’essai: una vera rivelazione dovuta a un mix inedito di macabro e humour che avvince i cultori distorcendo la consueta prevedibilità del genere horror. Assunto a sorpresa dalla casa di produzione di Mel Brooks dirige con l’autorità di un veterano tre anni più tardi “The Elephant Man”, la storia in uno splendido bianco e nero di un uomo affetto nell’Inghilterra vittoriana da una neurofibromatosi che lo rende orribilmente deforme e lo relega al ruolo di fenomeno da baraccone. Sviluppato senza un minimo di patetismo consolatorio sul tema della dignità umana nascosta in una maschera mostruosa, il film vale nella storia del cinema molto di più delle otto candidature a cui non seguì alcun Oscar. Poco apprezzato dal pubblico e spaventoso flop al botteghino, la trasposizione kolossal del classico di fantascienza “Dune” sembra mettere fine già nell’84 al suo precoce carisma, ma tra l’86 e il ’90, anni cruciali per la presa di potere dei sunnominati giovani turchi della cinefilia, “Velluto blu”, “Cuore selvaggio” e “Fuoco cammina con me” gli conferiscono una potenza capace di fare esplodere i parametri stessi del linguaggio cinematografico cosiddetto d’autore. Lo stile iper visionario, l’impudenza, appunto, selvaggia dei suoi antieroi e la pervasiva presenza di oscuri meandri di sesso negli ambienti apparentemente sterilizzati e anestetizzati della profonda provincia yankee saranno in futuro imitati mille volte senza mai riuscire a riprodurre la sua ossimorica “delirante lucidità”. Capacità ribadita nello stesso 1990 quando l’imperscrutabile cineasta rottama la logica della tv americana e mondiale grazie alla serie “Twin Peaks” basata sulle indagini a metà tra la suspense poliziesca e l’inesplicabile soprannaturale sull’omicidio di una studentessa in una cittadina montana, in pratica la versione postmoderna e ben più ustionante della vecchia Peyton Place tramandata dagli “scandalosi” libro e film dei puritani anni Cinquanta. Negli anni successivi Lynch, ancorché gratificato dai premi più prestigiosi (dopo la Palma d’oro per “Cuore selvaggio”, il suddetto premio alla carriera di Venezia, numerose candidature all’Oscar e infine quello alla carriera) non ha lavorato preminentemente per il cinema, ma soprattutto per le esposizioni di pittura, la tv, i documentari e i videoclip ma tuttavia ha firmato film geniali e sovversivi come “Strade perdute”, “Mulholland Drive” e “Inland Empire”. Non c’è da stupirsi, peraltro, che proprio colui che fu definito con qualche ragione il Francis Bacon del cinema ci abbia regalato un capolavoro assoluto con “Una storia vera” (1999), epicedio crepuscolare e bucolico dell’ultimo viaggio di un vecchietto sperduto nell’immensità di un (forse) pacificato panorama western.