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Pubblicato il 12 Luglio 2022 | da Valerio Caprara

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La scomparsa di Caan

Nel cinema americano, almeno in quello classico che oggi tutti rimpiangiamo, funziona così: i bravi attori, anche se non sono divi, fanno la storia e tramandano l’epoca. James Caan, morto ieri dopo una crudele malattia, ha mantenuto la forza e l’umiltà del caratterista sia quando è stato arruolato in progetti di primo rango, sia quando ha dato il massimo in film meno altisonanti o comunque di genere. Il suo carisma è stato, insomma, garantito dalla strenua qualità del suo professionismo, dalla fisionomia scolpita particolarmente adatta ai ruoli grintosi, se non violenti e dalla concentrazione  con cui ha rispettato le indicazioni di registi spesso non facili perché troppo autorevoli e acclamati oppure, al contrario, anonimi e pragmatici. Nato nel Bronx da genitori di origine ebraica ottantadue anni orsono e cresciuto nel Queens, può essere dunque incluso nella sfavillante galleria dei newyorkesi, una sorta di razza a parte che ha regalato a Hollywood giganti come Al Pacino, Robert De Niro, Woody Allen, Denzel Washington, Philip Seymour Hoffman. Allievo di buon livello della Neighborhood Playhouse School of the Théâtre, conobbe e frequentò in quel periodo il giovane cinefilo Francis Ford Coppola destinato a diventare non solo un maestro del cinema, ma colui che gli diede la chance di toccare il vertice della lunga e prestigiosa carriera. Se dovessimo dichiarare subito, infatti, quale personaggio si materializza d’emblé ai nostri occhi (ma anche a quelli della maggioranza degli spettatori) non potremmo che citare Santino «Sonny » Corleone, il machista e brutale primogenito di Don Vito nel primo atto della scespiriana saga del «Padrino». La nomination agli Oscar come migliore attore non protagonista (così come le tante altre candidature ai Golden Globe ottenute grazie alle interpretazioni successive) non basta certo a valorizzare quell’incarnazione selvaggia, quasi animalesca ma nello stesso tempo intonata alla sacralitá travisata dei legami di sangue perfettamente rappresentativa della logica criminale familista descritta prima dallo scrittore Mario Puzo e poi dal suo mentore Coppola.
Tra il 1973 di questo exploit e il 1990, anno in cui recitò in un capolavoro, purtroppo non parimenti noto al grande pubblico come « Misery non deve morire » non si è quasi mai fermato, diventando un elemento insostituibile del rinnovato cinema americano fedele ai valori fondativi di virilità, azione e credibilitá mimetica. In « Misery », appunto, si esibisce nel duello mortale di uno scrittore di bestseller sequestrato e torturato da una fan avida di divorare le sue storie: la sua stoica determinazione a sopravvivere contrapposta alla follia della donna (Kathy Bates) che lo ha sequestrato in un isolato cottage di montagna vi trova accenti memorabili, le acmi di un terrore che evoca la gabbia in cui i consumatori compulsivi vorrebbero idealmente imprigionare gli autori prediletti. Non a caso Caan aveva lavorato agli esordi con mostri sacri come Howard Hawks per cui interpretò film di culto come «Linea rossa 7000 » e «El Dorado » e  non a caso era un combattente del circuito sadomasochistico di « Rollerball »: tanto fisicamente aitante quanto espressivamente versatile da essere scelto dal poeta dell’ultraviolenza Sam Peckinpah nel thriller complottista «Killer Élite ». Impegnato anche in tv, divenne beniamino dell’audience generalista
interpretando il protagonista Big Ed della serie “Las Vegas” andata in onda dal 2003 al 2007. Purtroppo depressione, cocaina e ambigue frequentazioni di malavitosi (fu persino testimone non ufficiale al famoso processo « Mafia Commission») frenarono un tantino non la quantitá degli ingaggi, ma la loro qualitá. Sia pure all’altezza degli autori europei che lo avevano voluto in cast importanti (Von Trier per «Dogville » e Lelouch per «Bolero »), Caan vide scemare il suo credito negli USA dell’incipiente diktat del «politicamente corretto», ma è stato ancora in grado di lasciare il segno della sua latente minacciositá, del suo tormento interiore e della sua esplosiva voglia di giustizia nel fumettistico “Dick Tracy” di Beatty, in “Strade violente” di Mann e più ancora nel commovente “Giardini di pietra”, altro grande titolo del vecchio amico Coppola. La stella che dal 1978 incide il suo nome sulla Hollywood Walk of Fame brilla a imperitura memoria di uno dei pochi attori che ha resistito con la costanza del talento alla mutazione genetica dei mostri sacri di Hollywood.

 

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