Pubblicato il 15 Maggio 2016 | da Valerio Caprara
2La pazza gioia
Sommario: Due donne molto diverse, ma ugualmente ferite dalla vita fanno amicizia in un centro di recupero mentale. Proveranno a scardinare a modo loro le regole e i comportamenti imposti dalla società dei sani ai cosiddetti matti.
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Pochissimi cineasti come Paolo Virzì riescono a suscitare l’empatia col pubblico. Un plusvalore autentico, che in fondo è il coefficiente dell’equazione-cinema e può persino prescindere dai disparati meccanismi grazie ai quali il film l’incassa. Non a caso al termine di La pazza gioia è la generosità la prima qualità che salta agli occhi: sostantivo va da sé da intendersi non in senso paternalistico-buonista, bensì in quello di spaziosità narrativa, iconica, creativa. La sua galleria di donne tutte senso e sensibilità si arricchisce, infatti, di Beatrice e Donatella che, ricoverate in una comunità terapeutica, dimostreranno in capo a un pugno di buffe (dis)avventure come non siano “matte”, bensì persone delicate e preziose, ferite a vario titolo da partner, società o famiglia. Un mini-romanzo di riacclimatazione alla libertà su cui torreggiano la Ramazzotti più grintosa e scombinata che mai, ma soprattutto la Bruni Tedeschi eccezionale nell’incarnazione di svalvolata sexy e radical chic autolesionista, sempre trascinante benché sospesa appena un millimetro al di sopra della caricatura. La miscela di lacrime e risate, per fortuna, proprio per questo non si lascia sopraffare dalla sceneggiatura che, al contrario, non ha predisposto al meglio l’interscambio -che al regista viene invece naturale- tra il (si scusi la brutalità) “messaggio” e la vividezza e la levità degli sguardi, le espressioni, i movimenti e il modo di scambiarsi le emozioni. Perché l’assioma che i veri folli sono i normali e nella vita tutti hanno le loro ragioni ormai lo sanno ripetere a memoria a legioni, non solo i cinefili con l’immancabile listino di Thelma e Louise e nidi del cuculo; mentre Virzì gestisce da par suo un approccio compassionevole e non pietistico, che s’insinua sotto la pelle delle situazioni, sorvola sulla rieducazione ideologica dello spettatore, non edulcora il mondo, ma neppure gli spara addosso nascondendosi dietro Senza fine diffuso a tutto schermo nella sala buia. E’ questo il cineasta da amare perché anche stavolta, ancorché a intermittenza, ha voluto e saputo specchiarsi nelle nostre imperfezioni.