Recensioni

Pubblicato il 8 Dicembre 2020 | da Valerio Caprara

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La morte di Sean Connery

Il regista Terence Young, che lo ha diretto in tre basilari 007, una volta ha dichiarato: “La gloria è passata sopra la testa di Sean”. Non è una frase pronunciata a caso perché se è vero che Thomas Connery, spentosi l’altra notte nel sonno a novant’anni compiuti da poco più di due mesi, viene ormai riconosciuto come un mito del cinema-cinema e il suo talento considerato d’alto livello al di là della serie dei film trasposti dai romanzi di Fleming, nessuno del suo rango mediatico è stato disinteressato più di lui al potere e al presenzialismo. Come del resto ribadì con il suo tipico sarcasmo un altro gigante della macchina da presa come Huston: “Ci sono due attori ai quali la gloria non interessa: il cane Lassie e Connery”. Nessuna estrosità, peraltro, nessun donchisciottismo, nessuna abiura dalle regole del mestiere: l’ex ragazzone nato al Royal Maternity Hospital di Edimburgo la sera del 25 agosto 1930 e soprannominato a lungo Big Tam, il grosso Tom, prima di scegliersi il nome d’arte Sean in onore dell’amatissimo western “Il cavaliere della valle solitaria”, è rimasto diffidente nei confronti di celebrazioni e onorificenze a causa delle mai rimosse frustrazioni subite nell’umile contesto sociale in cui ha trascorso infanzia e adolescenza. Alto quasi un metro e novanta già a diciotto anni, dotato di un fisico scultoreo ma anche di uno sguardo vivace e intelligente, era entrato a Londra nel giro dello spettacolo non perché in preda al sacro fuoco, ma semplicemente per guadagnarsi la piccola paga offerta alle comparse del musical itinerante americano “South Pacific”. Non c’è traccia di retorica né di estasi artistiche, del resto, nel viatico offertogli dal primo mentore, l’anziano collega di tournée Robert Henderson che gli consigliò di leggere una serie di classici letterari anche impegnativi: “Se con il tuo aspetto da camionista sarai in grado di esprimerti come un intellettuale, avrai davvero un futuro nel teatro”. Nasce proprio da questo imprinting tosto e per certi versi grezzo, prosaico il carisma di un divo/antidivo che ha sempre saputo mantenere senza mai un cedimento, un tradimento, un impaccio il massimo di confidenza possibile con il pubblico.

Succede, infatti, di dovere ripescare sul suo conto dati che persino gli spettatori odierni così distratti e immemori sembrano conoscere a menadito: messe per un po’ di tempo in disparte la gavetta teatrale e le apparizioni in dignitosi film di genere (da “Il bandito dell’Epiro” a “Scotland Yard sezione omicidi” e il kolossal bellico “Il giorno più lungo”), la decisiva svolta di vita e carriera arriva nel 1962 quando viene scelto dal geniale duo di produttori Albert Broccoli/Harry Saltzman per incarnare James Bond, l’agente segreto britannico che replicherà in futuro in sette titoli, compreso quello fuori dalla serie non ufficiale, entrati di prepotenza nell’immaginario avventuroso mondiale. Straordinariamente a suo agio nel gestire il perfetto mix di ironia, azione, lusso e sesso che il personaggio richiede, nonché trascendendo com’è giusto le caratteristiche proposte dalla pagina scritta, il futuro Sir per decisione di Elisabetta II diventa il simbolo dei più scanzonati e voluttuosi piaceri della vita che attirarono subito la censura dei custodi di arcigne posizioni oggi soltanto riverniciate sotto l’etichetta del politicamente corretto. Non è, per intenderci, farina del sacco dei noti savonarola contemporanei un giudizio come il seguente: “Come i libri pornografici e i film sexy che ne sono derivazione stanno all’esotismo, così l’agente 007 sta alle tendenze fasciste dell’animo umano” (“L’Avanti”, gennaio 1965). E pensare che Umberto Eco e Oreste del Buono nella pionieristica e coraggiosa raccolta di saggi uscita nel 1965 (Il caso Bond) già sottolineavano, come oggi farebbero i critici e i cinefili più rilassati e competenti, l’importanza di elementi quali le fuoriserie superaccessoriate, le cene in ristoranti stellari, le reiterate o estemporanee avventure erotiche e i drink generosi a ogni ora del giorno e della notte, narrativamente congegnati affinché lo spettatore s’identifichi con il personaggio e ne condivida le esperienze, arrivando debitamente preparato alle situazioni di pericolo e alle successive catarsi una volta che Bond abbia salvato la pelle. Profetica del fascino prepotente esercitato dall’attore anche nella futura filmografia extra bondiana si dimostrò anche una giornalista del livello di Oriana Fallaci, che nel suo celebre reportage del ’65 lo tramandava come “gigante segnato da rughe profonde come cicatrici e gli occhi grandi inermi indifesi… dalla mole davvero imponente, drammatizzata da spalle eccessive: spalle di un uomo che mangia molto beve molto e fa molto l’amore”. Sembra quasi una recensione che rievoca gli antieroi del Free Cinema, i rudi, virili combattenti della vita e dello sport interpretati dagli Harris, i Courtenay, i Warner sotto i cieli di piombo delle città britanniche ricostruiti da formidabili autori come Anderson, Reisz, Richardson.

Eppure il Connery scelto successivamente da registi altrettanto prestigiosi come Lumet, Hitchcock, De Palma mantiene, raffina e custodisce uno stile asciutto, un’eleganza di movimento e di gesto e un’espressività dominante che escludono qualsiasi nostalgia per il passato e accompagnano senza doping promozionali l’evoluzione dei temi e dei gusti dell’ex arte chiave del Novecento. Nel suo caso, vogliamo dire, sequenze e battute di alcuni capidopera popolari non avrebbero potuto cristallizzarsi, come hanno fatto, nella delicata bolla del culto se lui stesso non avesse operato una resistenza sommessa e non esibizionistica, ma duratura e rocciosa allo sfruttamento del proprio mito. I gossip non hanno avuto, dunque, un’importanza eccessiva considerando la ferrea riservatezza mantenuta in ambito familiare: sposato nel ’62 con l’attrice australiana Diane Cilento (da cui ha avuto l’unico figlio Jason Joseph); divorziato nel ’73 e due anni dopo risposato con la pittrice francese Micheline de Roquebrune con cui ha vissuto sino alla fine. Potrete, certo, preferire la maestosa interpretazione premiata con l’Oscar al migliore attore non protagonista del poliziotto irlandese Jimmy Malone in “Gli intoccabili” a quella del macho votatosi per amore alla redenzione mentale e fisica della bionda cleptomane e frigida Tippi Hedren in “Marnie”; l’irresistibile avventuriero kiplinghiano che in coppia il compare Michael Caine conquista un regno tra le montagne del Kafiristan al senile quanto indomito Robin Hood che protegge la tenerissima Audrey Hepburn nell’incantevole lirismo di “Robin e Marian”; il medico di mezza età che, arrivato in un paesino svizzero con la giovane nipote e amante, s’intriga nel traslucido thrilling di “Cinque giorni, un’estate” all’infallibile, astuto e risoluto Sherlock Holmes reinventato in abito monacale e habitat medievale in “Il nome della Rosa”. Ma se non ve ne interessa neppure uno e non siete innamorati neanche di un alter ego dell’ex lattaio degli slums di Edimburgo, il lockdown del cinema non sarà un trauma che vi concerne.        

  

 

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