Articoli

Pubblicato il 27 Dicembre 2019 | da Valerio Caprara

6

La mia Top Ten del Decennio

E’ un gioco, ma mica tanto. In capo a giorni di tormenti, si comprenderà di che lagrime grondi e di che sangue la brutale sintesi che cerca di offrire la seguente top ten del decennio. La quale va ovviamente addebitata a un punto di vista partigiano, uscito per di più malconcio dall’impatto con le equilibrature, gli assestamenti e gli impliciti termini di paragone con quel che passa il convento. Un solo esempio per tutti è l’assenza dei film prodotti dalla piattaforma Netflix –tra cui due capolavori come “Roma” e “The Irishman”- , un’assenza non certo dovuta al noto e imbelle furore ideologico purista, bensì a banali motivi ancora (per poco) legati all’impossibilità di rendersi conto con una certa precisione di quanti lettori li hanno effettivamente ben presenti.

I- JOKER (Phillips, 2019). “… e una risata vi seppellirà”. L’eco del motto anarchico e sessantottino si frantuma in una sghignazzata sinistra, incontrollabile, isterica, una sorta di verso straziante di una bestia fuggiasca, l’atroce singulto innescato dalla rabbia e dall’odio che straripano dal buio della disperazione individuale per appiccare le fiamme della rivolta nelle masse degli emarginati e perdenti della megalopoli.

II- DJANGO UNCHAINED (Tarantino, 2013). Il western sottoposto a elettroshock: il racconto messo sempre tra virgolette, il dialogo gestito sempre in contropiede, gli spasmi fotografici intonati alle cose invece che alle atmosfere, la retorica di paradosso, rima, digressione applicata alla nascita di una nazione, l’ironia che taglia a fette la tensione, l’overdose di atrocità che non commuove perché l’affrancato Django è diventato più crudele dei razzisti bianchi.

III- PARASITE (Joon-ho, 2019). La spirale della lotta per la sopravvivenza in cui ciascuno si tramuta in parassita di un altro, una brutale sarabanda, un gioco al massacro che via via costringe i contendenti a protestare, ringhiare, contorcersi, strisciare, rosicchiare, mimetizzarsi, rintanarsi. Se la tragedia del divario sempre più abnorme scavato tra derelitti e benestanti ci riguarda tutti, il film non indulge alle solite artificiose indignazioni, non elargisce morali pret-à-porter, non recapita messaggi di speranza all’annichilito spettatore.

IV- TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI (McDonagh, 2017). La sceneggiatura ideale assomiglia a questo torbido thriller venato di humour nero, l’indimenticabile ritratto di una donna che sopravvive, pensa e lotta in una landa selvaggia come un moderno cowboy. Il controllo stilistico, l’intelligenza psicologica e la libertà morale con cui il commediografo, sceneggiatore e regista McDonagh mette in scena la sua ballata di dolori, odi e vendette hanno pochi riscontri nel cinema (non solo) americano odierno.

V- LEI (Jonze, 2014). Una concentrazione dolcissima. I sensi immersi in un gioco di seduzioni e stupori. Il film destabilizza insinuando una sottile disperazione che non nasce in base al sospetto che i sentimenti primari non ci appartengano, ma risiedano in un misterioso altrove, nella nostalgia kubrickiana per ciò che siamo stati ed è destinato a permanere in qualche parte dell’universo o nella percezione dell’ultimo Kurosawa della vita che sfugge nel momento esatto in cui la si sogna.

VI- CARNAGE (Polanski, 2011). Un crescendo tanto violento quanto esilarante: l’acrimonia, l’insofferenza, l’ostilità reciproca e l’invidia sociale che covano sotto la cenere di 80 minuti mozzafiato nell’unità di tempo e spazio di un confortevole appartamento di Manhattan deflagrano a poco a poco, demolendo le fragili barriere del “politicamente corretto”, smascherando i rispettivi decori professionali e tirando in ballo anche il feroce conflitto tra i sessi.

VII- DOGMAN (Garrone, 2018). L’oscura pulsazione di un non-luogo dove le persone possono al più sopravvivere. Edifici che sembrano disabitati anche quando non lo sono, strade sterrate, spiagge luride, luci che brillano solo all’alba, locali come buchi aperti sul nulla, recinti e muri scrostati, un mondo di discarica, una latrina da cui non è possibile tirarsi fuori. Tutt’altro che un sado-thriller qualunque o un report di cronaca nera dalle venature splatter, bensì un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa e si trasforma fatalmente in vendetta.

VIII- LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT (Mainetti, 2015). Lo spirito dei manga giapponesi degli anni ’70 e ’80 e le spavalde lezioni di fantasy impartite ai bambini e agli adolescenti di allora dalle maratone tv di Jeeg Robot, Goldrake e Mazinga, nonché gli aggiornamenti postmoderni alla “Tetsuo” di Tsukamoto, per tramandare la corrusca leggenda del primo supereroe coatto della cinica Roma moderna.

IX- COLD WAR (Pawlikowski, 2018). Il soggetto è antico quanto il mondo, ma “Cold War” suscita sentimenti così intensi da fare sì che irrompano nel cuore dello spettatore come se fossero inediti nel preciso  momento in cui lo guarda. Una storia d’amore incandescente incastonata in un blocco di ghiaccio.

X- IL PONTE DELLE SPIE (Spielberg, 2015). La rievocazione con stile teso e coeso e una presa narrativa ferrea di un cruciale episodio della Guerra Fredda, Al centro di questa spy story veritiera giganteggia il personaggio spielberghiano per eccellenza, l’uomo comune dell’identità americana che ne incarna i principi democratici esposti ai venti della libertà e per questo a volte traditi, ma ciò nonostante estranei alla presunta banalità retorica contro cui s’accaniscono le svariate tipologie dei suoi nemici eterni.

Condividi su
Share

Tags:




Torna su ↑
  • Old Movies Project

    Old Movies Project
  • Film Commission

    Film Commission
  • Archivi

  • Facebook

  • Ultimi Video – Five – Fanpage

  • Ultimi Tweet

  • Link amici