La città proibita
Sommario: La ragazza cinese Mei, asso del kung fu, arriva nella Capitale alla ricerca dalla sorella scomparsa. La pericolosa missione la porta a conoscere Marcello, cuoco presso la trattoria gestita dalla mamma e frequentata dal ras del sottobosco multietnico che s’è insediato tra l’Esquilino e Piazza Vittorio....
2.5
Divertente, scatenato, survoltato, ancorché da prendere col patto di sospensione d’incredulità. Un film di Mainetti in purezza, insomma, un kung fu movie attavolato perché ambientato soprattutto in due luoghi iconici della Capitale: un lussuoso/tenebroso ristorante cinese e una trattoria popolata da maschere ineffabili della romanità più smaccata. “La città proibita” certo non assomiglia a nessun altro titolo italiano per come punta senza remore all’entusiasmo delle platee estasiate dai coreografici duelli spezzaossa e nello stesso tempo al piacere degli adepti del realismo glocal. Humour, ritmo e tensione si alternano nelle immagini splendidamente fotografate da Paolo Carnera che tramandano le imprese di Mei (la stunt Yaxi Liu) ragazza cinese piovuta ai giorni d’oggi sotto il Colosseo alla ricerca dall’amata sorella scomparsa e finita in un brutto giro di prostituzione. Per farla breve basta aggiungere che la sua missione la porterà a incrociare i passi con Marcello (Borello) cuoco presso il tempio delle fettuccine gestito dalla mamma Lorena (Ferilli) e frequentato dal suo eterno ancorché stagionato spasimante Annibale (Giallini), ras del sottobosco multietnico che s’è insediato tra l’Esquilino e Piazza Vittorio. Proprio il pittoresco e vociante quartiere è al centro dell’epopea beffarda e paradossale che assembla una cospicua serie d’influssi che vanno da Leone a Tarantino, con particolare riferimento al cult di Bruce Lee “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente” realizzato anch’esso a Roma nel 1972: “Roma ti entra dentro. Qui tutto è permesso e niente è importante. Da noi, in Cina, niente è permesso e tutto è importante» proclama a un certo punto uno degli esagitati personaggi sottolineando, così, l’aspetto migliore del film ovvero l’irridente mix di cliché rovesciati e bizzarrie sardoniche (il greve Annibale che nell’intimità domestica gorgheggia De André, due colossali tirapiedi messi ko a colpi di mazzi di fiori, l’imbattibile eroina messa sotto da un motorino a causa del traffico romano, il figlio che disprezza il padre criminale e vuole solo continuare a fare il rapper in santa pace ecc.). Peccato che nel lungo percorso (138 minuti) si scontino qualche salto e qualche rattoppo della sceneggiatura, per esempio quando scatta il connubio dei neo piccioncini Mei e Marcello -c’è anche una scorribanda in motorino in funzione d’omaggio a “Vacanze romane”- perché il cipiglio della guerriera proprio non ce la fa a sciogliersi in quello di una fanciulla innamorata.