Pubblicato il 7 Marzo 2019 | da Valerio Caprara
5La casa di Jack
Sommario: Un serial killer americano fa rivivere compiaciuto agli spettatori il catalogo dettagliato delle sue abominevoli efferatezze. Un mellifluo e verboso Virgilio lo spingerà negli abissi di un inevitabile inferno dantesco.
1.5
Lars von Trier è un corpulento, barbuto e goffo regista danese, affetto da disturbi ossessivo-compulsivi e fobie (a Cannes dormiva in un camper parcheggiato nel giardino dell’esclusivo Hotel du Cap), inebriato dai propri vezzi (una volta filo comunisti, un’altra filo nazisti) e dalle proprie scelte artistiche (una volta per il minimalismo, un’altra per la smisuratezza dell’opera), squassato dall’amore/odio per gli Usa, provocatore contro tutto e tutti, ma essendo campione mondiale di narcisismo soprattutto contro se stesso.
A pelle ci sarebbe da girare alla larga, ma siccome i film si giudicano come un linguaggio persino il pugno nello stomaco di “La casa di Jack” ha diritto a un’analisi competente; anche se è imbarazzante immaginare le reazioni degli spettatori al cospetto delle scene di violenza e sadismo sciorinate in due ore e mezza che farebbero vacillare persino l’imperturbabile inquisitrice di criminali Franca Leosini: il diario-confessione del serial killer che vuole fare dei suoi massacri altrettante installazioni o performance procede, infatti, in un crescendo di omicidi efferati, torture scioccanti, corpi mutilati di donne e bambini, cadaveri impupazzati, un campionario di atrocità interpolate dal ghignante humour del sessantaduenne misantropo nonché da paralleli zoologici, glosse filosofiche, variazioni di formato dell’inquadratura e qualche autocitazione ammiccante. Cinque capitoli definiti incidenti e un epilogo in forma di catabasi (la discesa dell’anima agli Inferi secondo i greci) destinati -in base a una megalomania che non conosce limiti- a “riempire i buchi” lasciati aperti dal cinema nei suoi centoventisette anni di vita.
Messo in conto il derby tra gli sdegni e gli attestati di genialità, v’imperversano, in realtà, dissonanze e stanchezze perché LvT non è riuscito a far fare un passo in avanti alla propria formula promozionale: al massimo qualcuno si forzerà di credere che Dillon con la sua maschera tra il parodico e il maligno non incarni il Male assoluto, bensì lo specchio deformante della crudeltà gratuita e l’indecenza (a)morale su cui si fonderebbe l’essenza dell’umanità. Accompagnato al settore 7 dell’inferno dalla flautata guida che non a caso si chiama Verge, Virgilio (ultima apparizione di Ganz sullo schermo), Jack ci tiene a non giustificare le proprie scelleratezze avvolgendosi nella palandrana rossa che lo trasfigura in un redivivo Dante adeguato alla commedia demoniaca piuttosto che divina del nostro tempo. Conta a questo punto assai poco che tra una mattanza e l’altra si susseguano le citazioni di celebri dipinti, dei virtuosismi pianistici di Gould, delle grandiose architetture dell’hitleriano Speer, dei video di Bob Dylan ecc. Quello che al film sta veramente –si fa per dire- a cuore è evidenziare la palese colpevolezza del protagonista in contrasto con la presunta innocenza del gigionesco regista che dietro le quinte non smette di supplicare pubblico e critica di sculacciarlo purché poi continuino a prenderlo sul serio.
LA CASA DI JACK
THRILLER/HORROR, DANIMARCA/FRANCIA/GERMANIA 2018
Regia di Lars von Trier. Con: Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan F. Hogan, Sofie Grabol