Jim Carrey, Ricordi e bugie – La nave di Teseo editore
Nell’autobiografia in maschera di Jim Carrey salta subito agli occhi il reiterato ricorso alle frasi: “Disse, fece, decise Jim Carrey”. Certo, il parlare di se stessi in terza persona è considerato un gioco retorico per narcisisti (da Giulio Cesare a Maradona), anche se non mancano gli studi secondo cui ragionare in terza persona aiuterebbe a distaccarsi e prendere decisioni migliori.
Ma nel caso dello spassoso, provocatorio, velenoso e a tratti enigmistico Ricordi e bugie (Memoirs and Misinformation, traduzione di Tiziana Lo Porto, La nave di Teseo editore, pp. 320, euro 20), è il modo ideale per introdurre una vera e propria galleria di celebrities che con l’autore avrebbero intrattenuto o intratterrebbero rapporti per quanto concerne il repertorio di follie, intrighi, passioni proibite, scandali mediatici con un pizzico di porno sempre aperto nella storia del cinema con l’etichetta “Hollywood Babilonia”. Così, spinti dal protagonista ossia il ghignante alter ego dell’attore, i lettori via via s’imbatteranno in una pletora di habitué del circuito divistico come Nicolas Cage, Gwyneth Paltrow, Laser Jack Lightning (Tom Cruise, non inserito col suo nome perché: “Conosco Tom, potrebbe picchiarmi”), Tom Hanks, Steven Spielberg, il duro Sean Penn che si spegne le sigarette sull’avambraccio, Marlon Brando ricreato in digitale per promuovere una pillola contro il raffreddore oltre alla fidanzata (inventata) che lo lascia per interpretare un film di Tarantino il cui copione a un certo punto dettaglia: “Decapitati, sventrati, scuoiati vivi, facce strappate con gli artigli”. Tutte queste rimodellate identità –Cage, per dirne una, fa il collezionista di dinosauri- compongono una gimkana di situazioni folli, sfrenate, allusive, nonsensiche che a poco a poco, però, si allontanano dall’habitat principale e iniziano a digrignare i denti contro l’intera umanità in procinto di collassare perché risucchiata in una spirale di crudeltà, cinismo, esibizionismo e avidità.
Si sentiva il bisogno di un altro moralista esacerbato? Fa simpatia e raccoglie complicità l’ex cabarettista big del genere comico-demenziale (“Ace Ventura”, “Scemo & più scemo”, “The Mask”) assurto ai vertici del cinema adulto e di culto grazie alle superbe performance in “The Truman Show” e “Se mi lasci ti cancello”? Prima di rispondere istintivamente con un no è opportuno completare il tour nel labirinto in apparenza allegro e sarcastico, ma in realtà dolente e autolesionistico tracciato sulle fitte e talvolta farraginose pagine del libro scritto dal cinquantanovenne fantasista del palcoscenico e lo schermo col supporto dello scrittore e giornalista del “New York Times” e “Vanity Fair” Dana Vachon, dotato per suo conto di una forte tempra per essere riuscito a restare in sintonia con le sue ubbie, i suoi furori e le sue vere traversie esistenziali (è stato accusato, tra l’altro, ma poi scagionato di avere indotto al suicidio la sua ultima fidanzata). Appare, in effetti, cruciale l’irruzione dell’amico regista Charlie Kaufman che propone al nostro niente di meno che interpretare Mao Zedong in un kolossal in stile horror-fantasy assegnandogli in pratica una serie di terribili impegni: per farlo bene dovrà centrare un tono comico-grottesco, trasformarlo in un ricalco personalizzato di “Toro scatenato” (!), ispirarsi alle icone maledette di Heath Ledger o Philip Seymour Hoffman (trasformisti sublimi uccisi dal proprio talento) al fine di guadagnarsi “una futura cerimonia degli Oscar con indosso un elegante smoking Armani”. Segue ingrassamento forzato sino a prendere le sembianze di un abnorme avatar maoista che nel corso di un party gremito di fauna hollywoodiana sbotta in un violentissimo proclama antiamericano e anticapitalista: anche se l’obiettivo era chiaramente Trump prima che fosse eletto presidente, quest’ultima e altre risse metaforiche non perdono d’attualità perché le frustrazioni dell’ex ragazzino canadese costretto a inventarsi scenette e freddure per distrarre la mamma sotto morfina negli stadi finali della malattia sono incise sull’anima e la carne e non prevedono scadenze di sorta. Non a caso l’astio mixato di satira e memoir colpisce prima di tutto se stesso, come dimostra l’autoritratto realizzato nel prologo in spregio d’ogni bonomia cerimoniale: depresso, imbolsito e solitario autorecluso in una mega villa losangelese dal recinto elettrificato e il prato bruciato dalla siccità, immerso da ore nella catatonica visione della tv (preferibilmente programmi alla Piero Angela sull’uomo di Neanderthal e la distruzione di Pompei) con una coppia di rottweiler distesi al suo fianco, unico piacere la piscina in cui peraltro si limita a galleggiare in un’inquietante posizione fetale. Sfidiamo a presentarsi con uguale faccia tosta qualsiasi altra star dell’empireo divistico.
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