Pubblicato il 12 Novembre 2021 | da Valerio Caprara
0Intervista a Umberto Contarello – versione completa
“Ringrazio le persone che mi hanno accolto nel cinema: Capuano e Contarello”. Tra le dediche che Paolo Sorrentino ha effettuato ricevendo alla Mostra di Venezia il Leone d’argento per l’autobiografico “È stata la mano di Dio” spicca la conferma di questi legami antichi e indissolubili; ma se il nome del regista conterraneo è mediamente noto, chi davvero se ne intende corre col cervello e il cuore a Umberto Contarello, padovano classe 1958, top sceneggiatore sin dall’esordio con “Marrakech Express”, agente di fusione decisivo di molti cult tricolori firmati Mazzacurati, Salvatores, Amelio, Archibugi ma soprattutto complice a pieno regime dei film più clamorosi di Sorrentino, da “La grande bellezza” a “Loro” 1 e 2, “The New Pope” e “The Young Pope”. Presentato nel corso delle Giornate degli Autori a Venezia e in un’anteprima romana al cinema Farnese, l’autoritratto “Parole. Operetta per piano e voce” rappresenta in una fase cruciale della sua lunga marcia (guai a definirla carriera) una sorta di joyciano flusso di coscienza che duetta col proprio cospicuo ego, ma nello stesso tempo investiga sugli intrecci linguistici e poetici alla base della palingenesi del cinema italiano prima e dopo la mannaia della pandemia.
Ottantacinque minuti di riprese navigando in barca a vela con lo skipper Corrado Sassi. E tu che pensi e parli: una sfida o una resa al narcisismo dell’autore cinematografico tradizionalmente più tenuto in disparte?
<Le parole scritte con cui per anni ho lavorato a un certo punto non suonavano. Oppure non le sentivo più: una ‘sordità’ che mi ha fatto nascere il bisogno di una sorta d’insonorizzazione e quasi imposto la ricerca di un racconto casuale, appunto ondivago e quindi adatto allo svelamento di grandi o piccoli segreti. Non tanto, spero, uno sfogo logorroico, bensì una confessione gestita dal maestrale, un assolo jazzistico sul cinema e i cineasti con cui ho lavorato, la famiglia, l’amore, il passato, le gioie e i tormenti>.
Insomma un nostos, un viaggio di ritorno a rovescio visto che da un’isoletta del tuo Adriatico ti sta riportando agli affanni romani, per liberarti da chi o da cosa?
<Dalla deformazione professionale che dopo trent’anni di lavoro ha subdolamente colpito il mio cervello –sai che è l’unica parte del corpo a non provare dolore-, stressato dalla falsa necessità, dalla truffa del dovere organizzare pensieri, copioni, storie e diventato incapace di abbandonarsi a ciò che conta e cioè il piacere dell’adesso, l’estemporaneità, la casualità, il rapporto con l’attimo. Decidendo di votarmi alla forma di racconto più semplice, fondativa, essenziale non potevo che scegliere l’opzione del viaggio>.
Tra un’ombra di malinconia e uno sprazzo di sarcasmo non sembri incline a guardarti indietro e attorno, a sbilanciarti nei giudizi sul mestiere in cui eccelli.
<Ho sempre detestato il termine sceneggiatura. Mi evoca l’immagine di una mano che vuole afferrare il proprio gomito. Certo Age e Scarpelli e gli altri maestri furono autori di una lingua, anzi di molte lingue; ma allo stato attuale ci ritroviamo nella stagione della decadenza, del manierismo, dell’apogeo del compitino… Quando mi dicono che un film è ‘scritto bene’, me ne tengo subito alla larga>.
Con Sorrentino, però, la scintilla è scoccata in modalità atipiche.
<La nostra amicizia e parte del nostro lavoro nascono da una coincidenza traumatica. Che non è la morte dei genitori, nel mio caso di mia madre, ma, parafrasando il poeta, la morte per sparizione. La morte di un genitore, infatti, alla fine trova una ragione, mentre la sparizione non la trova e diventa una compagna di vita. Paolo, che è persona delicatamente restia a parlare di sé, ha custodito sino al film più recente questa tragedia; mentre io, all’opposto, l’ho trasformata per darle un senso nello svolgersi di un’intera vita. Per perdonarmi o per giustificare un immotivato senso di onnipotenza, come se alle vittime di sparizione fosse consentito qualsiasi alibi>.
Grazie al montaggio di Monica Stambrini ricordi, aneddoti, riflessioni s’addensano nelle note della musica dell’immenso Danilo Rea che l’ha composta mentre assisteva per la prima volta al film.
< Solo in questo modo potevo evitare la mania corrente dello squadernare tutto, magari in nome degli orrendi vocaboli cari ai giovani colleghi: immaginazione, visionarietà, creatività. Non è tuttavia colpa loro: li allevano in una sorta di conclave perpetuo, li abituano alle “writers room” delle serie tv e li costringono a cercare vita (professionale) natural durante a cercare le cosiddette linee del racconto. Ma che sono adibiti come gli idraulici al funzionamento dei tubi?>.
I tuoi soliloqui astutamente divaganti non citano i registi –Sorrentino a parte- che ti piacciono e sorvoli sui temi divisivi del momento…
<Alt. Se mi chiedessi un titolo che amo come spettatore citerei un thriller magnetico e inquietante come “Nightcrawler”, non certo un film intriso di valori, un film ‘utile’. Quando ci sbattono in faccia i populismi, il #MeToo, il green pass, i talebani e reagiamo schierandoci pro o contro o sentenziando su ciò che è giusto o sbagliato, anche nel caso che ci trovassimo d’accordo la comunità d’intenti connaturata allo status di spettatori sarebbe già incrinata. Fare un film per me significa cercare il tempo o il contrattempo giusti che spalanchino le finestre, sprigionino la fantasia, emergano come sottomarini dalle acque e non crogiolarsi nel contemporaneo che sullo schermo è sempre e comunque già passato>.