Interviste

Pubblicato il 29 Luglio 2020 | da Valerio Caprara

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Intervista a Carlo Verdone

 

Otello: Iiiiih, che so’ quelle?
Jago: Sono…sono le nuvole…
Otello: E che so’ le nuvole?
Jago: Boh!
Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!

Jago: (ormai tutto in comica estasi) Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!
Le nuvole passano veloci nel gran cielo azzurro.

                Ninetto Davoli e Totò in “Che cosa sono le nuvole?” di P. P. Pasolini, episodio di “Capriccio all’italiana”, 1968

 

E’ un periodo di grandi onori e importanti riflessioni quello che sta vivendo con rinnovato fervore Carlo Verdone, aperto come non mai alla vita dopo il lungo e purtroppo non ancora terminato incubo del Covid. E’ indubbio, però, che il momento più alto, sia dal punto di vista dell’impatto culturale, sia da quello dell’originalità dell’evento, sia rappresentato dalla mostra fotografica “Carlo Verdone. Nuvole e colori” che sarà inaugurata in anteprima a ingresso gratuito giovedì 30 Luglio alle ore 20 all’interno del suggestivo cortile del Museo Madre con l’intervento dell’autore, Paolo Mereghetti, Elisabetta Sgarbi e Laura Valente. Si tratta, è giusto premetterlo, del prestigioso risultato della collaborazione portata avanti con intelligenza e alacrità tra la ventunesima edizione di “La Milanesiana” ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, che in quest’anno travagliato ne sperimenta un’inedita versione diffusa, con la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee della Regione Campania presieduta da Laura Valente: la prima sortita nella nostra città della  manifestazione il cui progetto è quello di fare incrociare saperi diversi avvalora, dunque, felicemente la linea del Madre mirata a fare dialogare sempre di più i linguaggi e le arti del contemporaneo. La mostra, curata dalla stessa Sgarbi con il critico cinematograficoMereghetti, vede esposti 42 scatti di Verdone che, nonostante lo straordinario rapporto stabilito da anni con tutte le fasce di pubblico, si dimostra in grado di esibire una passione o, per dire meglio, una vocazione poetica ad alto livello tenuta finora volutamente nell’ombra.

Come ha preso forma questa sorpresa assoluta?

<Per decenni non ne avevo parlato con nessuno. Avevo iniziato a scattare e conservare fotografie a fine anni ’90 senza crearmiuna fisionomia o avvalermi di un criterio specifici, poi a poco a poco ho cominciato a sforzarmi di trovare una chiave che conducesse nel cuore delle emozioni che provavo confusamente. Quando la Sgarbi s’è accorta che avevo accennato in un’intervista a questa passione segreta, tutt’altro che un hobby ci tengo a dirlo (sono 800/900 scatti conservati in un hard disk), ha insistito perché glie ne facessi vedere venti e poi altri venti. Di lì al suo entusiastico apprezzamento e alla decisione di allestire una mostra il passo è stato breve, nonostante fossi ancora riluttante non essendo in grado di valutare seriamente cosa avessi combinato>.

C’entra in questo percorso un faticoso e mirato esercizio tecnico?

<Non proprio. Mi sono appropriato di certe soluzioni mettendole in pratica e soprattutto passando dalle fotografie “normali” a quelle in cui riuscissero a emergere i temi pittorici, surreali, divisionisti che mi avevano impressionato e inconsapevolmente nutrito sin dall’inizio.E’ bene precisare, comunque, che non sono un fanatico perfezionista e non a caso ancora oggi mantengo quasi sempre la stessa e collaudata apertura dell’obiettivo. A questo proposito cito un’esperienza e un innamoramento che forse spiegano il mio apprendistato meglio dei ragionamenti: la prima riguarda la scoperta di Karel Plicka, regista, sceneggiatore, etnografo e fotografo amico di mio padre Mario che dovevo incontrare nel corso di un mitico viaggio a Praga. L’approccio non ci fu perché in quei giorni era ammalato, ma comprai un suo libro di ritratti in bianco e nero che considero ancora oggi un riferimento imprescindibile. Il secondo, in epoca decisamente meno remota, è legato a un quadro di Yoko Ono –in realtà un’ingegnosa composizione di 9 piccoli quadri- in cui i versi di Imagine sono in qualche modo scompaginati dall’incombere di nuvole grigie che ne fanno deragliare il senso facendo percepire il senso dell’interruzione dovuta alla perdita, alla scomparsa di Lennon. Nonostante fosse esposto non voleva venderlo, ma poi sono riuscito a comprarlo e anche a farmelo dedicare>.

Siamo arrivati alle nuvole che possiamo considerare, senza ricorrere ai paragoni con l’opera dei fotografi come Stieglitz, Steiner, Conner (titolari del cosiddetto “nuvolismo”, costante iconografica di tanto cinema americano ben noto ai cinéfili) o degli italiani Ghirri e Bramante, il tuo modo di recuperare il senso della vita, una sorta di via di fuga per permettere alla tua anima di sfuggire alle contaminazioni del mondo,l’impronta della bellezza come simbolo di rigenerazione da opporre alla morte.

<Sì le nuvole, ma in realtà l’intera volta celeste con i suoi cangianti colori colti a sorpresa dall’obiettivo, la tela astrale in cui mi sembra, da credente non dogmatico, di sentire la presenza di Dio e nel contempo il timbro della mia vera indole tendente alla malinconia. E’ per questo che nelle foto non compaiono mai elementi umani, minerali, animali, bensì unicamente atmosfere naturali, quadri spontanei e talvolta drammatici –per esempio al termine di una tempesta- che spiegano perché devo essere rigorosamente da solo, preso come sono da una concentrazione pressoché mistica, neimomenti in cui aspetto che succeda qualcosa cercandodi catturare l’attimo fuggente, l’essenza di quelle che alla fine posso definire le mie preghiere senza parole.>.

Senza ricorrere ai ritocchi “artistici”, mi sembra di capire.

< Niente fotoshop, certo, lascio sempre il risultato degli scatti così com’è venuto, al massimo se utilizzo il digitale posso cambiare il colore nel bianco e nero che preferisco… Tanto è vero che gli errori fanno parte del gioco: per esempio con una preziosa Canon che purtroppo si stava guastando, ottenevo immagini sempre più virate al rossastro, ma l’effetto era così affascinante che ho conservato gelosamente l’intera serie difettata>.

Questa saga delle nuvole è sviluppata tutta entro i nostri confini?

<In realtà ho ammirato in Cornovaglia o in Scozia le nuvole più spettacolari, velocissime perché sempre incalzate da venti impetuosi e burrasche incipienti, peccato, però, che finiscano col diventare prevedibili. Da noi i contrasti sono maggiori e mi stimolano il dinamismo, l’imprevedibilità che si susseguono –persino in uno scenario appiattito dalle luci roventi dall’anticiclone africano o, al contrario, quando imperversano le bombe d’acqua prodotte da torreggianti cumulonembi- nella settimana “giusta” e in quella seguente cercheresti invano>.

Niente a che vedere, dunque, con il tuo cinema e i tuoi ruoli?

<Semplicemente grazie alla fotografia ho la sensazione di potere confrontarmi con un’altra persona. Non è questione di livelli d’importanza, di successo o di qualità, la commedia consiste per la maggior parte in un diluvio di parole, all’80% concentrate in interni e scenari urbani e in messinscene dov’è impossibile intercettare suggestioni spirituali.  La folla che ti assedia per il mio mestiere è cosa buona e giusta, ma non c’entra nulla con quello a cui spero servano le foto e cioè che quando non ci sarò più possa in qualche modo sopravviverci dentro>.

E per finire concedimi una domanda maliziosa: adesso che lodi e riconoscimenti sono diventati davvero imponenti, ti dà piacere ricordare la schizzinosa sottovalutazione usata nei tuoi confronti all’inizio della carriera?

<No, credimi, no. Anche quando ho visto esaltare per una questione di “nome” cineasti che poi si sono rivelati inadeguati o sono addirittura scomparsi, non ho mai provato sentimenti di rivincita o vendetta. Non lo dico per atteggiarmi a uomo superiore, ma perché penso che il tempo sia il migliore giudice, l’unico fattore che può valorizzare o cancellare quanto ha fatto ciascuno di noi. E il riconoscere di avere scontato lacune, velleità, presunzioni, mi fa piacere perché non può che allungarmi la vita>.

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