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Pubblicato il 7 Gennaio 2022 | da Valerio Caprara

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IN MORTE DI SIDNEY POITIER


A lungo celebrato comeblack star, prototipo del versante moderato della lotta antirazzista, inserito nella categorie dei simboli della non violenza ispiratisi a Mandela, non a caso ricompensato con con due premi Oscar e molta retorica da Hollywood, Poitier morto ieri a novantaquattro anni rischia di passare alla storia del cinema grazie a una nobile e affabile commedia a tesi –“Indovina chi viene a cena” (1967)- in cui incarna il ruolo di promesso sposo di una ragazza bianca che, all’ombra di due monumentali promessi suoceri come Tracy e Hepburn, non gli concede di andare oltre il cosiddetto “typecasting”. Una forma subdola di ghettizzazione che sia per la qualità intrinseca, sia per il valore dei temi trattati lo condannava a interpretare uomini di colore aureolati di tutte le virtù dalla cattiva coscienza degli sceneggiatori e i registi bianchi, dalla quale ha dovuto liberarsi a poco a poco e con notevole sforzo grazie alla fisicità statuaria, alla naturalezza interpretativa, alla spiccata curiosità nei confronti dei diversi generi del cinema e, in particolare, al passaggio ridotto ma coronato da un certo successo dietro la macchina da presa. Il risultato, sottolineato dall’ampio cordoglio che si sta registrando nel mondo è sintetizzato da circa settant’anni di un’inimitabile carriera e una lista sconfinata di premi e onorificenze in patria e all’estero–ultima la medaglia presidenziale della libertà consegnatagli da Obama- nonché da più di cinquanta film tra cui una decina firmati da regista. Nato il 20 febbraio del 1927 a Miami benché cittadino bahamiano, Sidney fa ben presto ritorno al seguito dei genitori di professione commercianti di pomodori nella natia Cate Island, dove cresce lasciando a soli 13 anni la scuola per lavorare, servire la patria nell’esercito e entrare nei ranghi dell’”American Negro Theater” che gli permette di fare parte nel 1946 a Broadway del cast del mitico musical all-black “Lysistrata”. Hollywood lo nota subito e lo fa esordire sotto le ali di un super regista come Mankiewicz in “Uomo bianco, tu vivrai!” (1950), convulso dramma in cui interpreta un chirurgo nero costretto a curare due fratelli banditi bianchi in fuga e gravemente feriti: titolo significativo perché è quello che inaugura la nascente simbiosi con il cinema liberal del dopoguerra declinato nelle forme di una produzione di livello autoriale peraltro indirizzata a un ecumenico intrattenimento. Molto migliore il successivo “Il seme della violenza” (1955) di Brooks, tratto da un bestseller di Evan Hunter, l’avvincente resoconto da una turbolenta scuola della periferia newyorkese dove è l’insegnante che si conquista a caro prezzo il rispetto di una masnada multietnica apparentemente irredimibile. Non a caso la compulsiva attrattiva del film è contrassegnata dalla prima, storica volta in cui nella colonna sonora trionfa la musica rock di Bill Haley e i Comets.
Sullo stesso fronte dell’offerta mainstream rafforzata da robuste dosi di impegno civile, talvolta diseguali per equilibrio narrativo e sincerità di messaggio, s’inseriscono “Nel fango della periferia” (1957) di Martin Ritt, “La parete di fango” (1958) di Kramer o “I gigli del campo” (1963) di Nelson che gli fa vincere da primo nero della storia del cinema il primo Oscar personale (il secondo sarà alla carriera) grazie allo strambo e francamente poco trascinante personaggio di un vagabondo che soccorre cinque monache tedesche impegnate a costruire una cappella in Arizona. Nettamente superiore è la performance resa nel musical “Porgy and Bess” (1959) tratto da Preminger dal celebre melodramma di Gershwin e caratterizzato dalla voluta e magnificamente rielaborata artificiosità dello sfondo scenografico tra verismo e fantasia del ghetto portuale di Charleston. Un deciso scatto avviene grazie a un ottimo poliziesco di Jewison, “La calda notte dell’ispettore Tibbs” (1967), primo capitolo di un mini filone centrato sullo stesso personaggio dell’ispettore nero dell’FBI impegnato, più che dalla caccia all’omicida, da una digrignante rivalità con lo sceriffo bigotto e razzista interpretato da RodSteiger. Lavorerà sino al 2001, ma i sia pure solidi “Il seme dell’odio”, “Sulle tracce dell’assassino”, “The Jackal” o “David e Lisa” non mutano granché il suo appeal virile e il suo approccio carismatico alle storie, una di quelle garanzie di cui due-tre generazioni di spettatori hanno per grazia di Lumière usufruito.
Poitier si conferma a questo punto, nonostante la rimonta anni ‘70 della Nuova Hollywood sui totem del cinema di papà, un divo a tutti gli effetti, a cominciare dalla vita privata alquanto movimentata che, tra l’altro, registra la nota relazione durata nove anni conDiahann Carroll mentre era sposato con Juanita Hard con cui tra il 1950 e il 1965 ha avuto quattro figlie. Risposatosi nel 1976 con JoannaShimkus ha aggiunto alla tribù altri due eredi. Il “fango” e l’”odio” da cui si è districato, come rimarcavano tanti titoli dei suoi film più amati, è ormai uno sbiadito ricordo cancellato dall’imperitura limpidezza della gloria dello schermo.

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