Editoriali

Pubblicato il 20 Luglio 2019 | da Giuseppe Cozzolino

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In Morte di Luciano De Crescenzo

Nel ritratto dell’uomo kalòskaiagathòs, bello e buono, che da ieri tramanda la memoria di Luciano De Crescenzo il cinema non costituisce il dettaglio più significativo, ma non ha nulla, proprio nulla di sfocato o regressivo. L’eleganza innata dell’ingegnere vomerese, il suo istinto da narratore puro, la sua insuperabile ironia e, diciamola tutta, la santa pazienza con cui ha sopportato alcune critiche e altrettanti pregiudizi hanno fatto sì che alla distanza sia stato valorizzato il contributo dato anche in questo campo e che, guarda caso, oggi lo si ritrovi spesso una spanna avanti a molti cineasti napoletani nati con l’aureola artistica incorporata. In questo senso, facendo uno strappo alla regola d’evitare citazioni personali, una testimonianza di prima mano è costituita dalla strategia con cui era solito replicare alle recensioni non proprio benevole del sottoscritto,schierato con veemenza consona ai tempi dalla parte della new wave partenopea guidata da Salvatore Piscicelli & complici contro i modelli di napoletanità (presunta) tradizionalista, consistente nel sollecitorecapito di tutti ibestseller in uscita puntualmente corredati da affabili dediche, una delle quali sornionamente recitava: “Nella speranza che Socrate t’indichi la retta via”.

La maniera più ipocrita d’incasellarlo nel quadro della storia della commedia nostrana sarebbe, magari, quella di cospargersi il capo di cenere a nome e per conto della generazione di critici maturata nel passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta, erigendo, come di consueto, il monumento d’ordinanza a una filmografia che non ha mai cercato di garantirselo con pretensione autoriale o ruffianeria politica. I quattro titoli che ne costituiscono il profilo restano, in effetti, intimamente legati alla scrittura di De Crescenzo e, ancora di più, alla sua percezione di una contrapposizione antropologica che allora si pensava pigramente eterna, ma che proprio in questi anni, dopo mille giravolte più di facciata che di sostanza, è tornata d’inopinata attualità. Basta pensare a “Così parlò Bellavista”, sceneggiato insieme a un altro sottovalutato cronico come il poliedrico Riccardo Pazzaglia e uscito nel 1984, lo stesso anno, per capirci, di “Bianca” di Moretti e“Non ci resta che piangere” di Benigni e Troisi (senza andare a scomodare “C’era una volta in America” o “Kaos”, dai budget e target assai diversi): vagamente spiazzato dagli scoop della comicità a retrogusto ribellistico –ma poi gratificato dal David per il migliore regista esordiente e da quello alla migliore attrice non protagonista Confalone-, il saggio Luciano guarda ai maestri, recupera i caratteristi della scuola napoletana, osa persino riportare gli astratti furori giovanili alla vetusta ma sempre caliente diatriba tra napoletani e milanesi. Inconfondibile con la barba e i capelli argentati e la parlata da napoletano di gran classe, l’alter ego professor Gennaro v’impartisce lezioni di vita a Casillo, Solli, Scala, Scarpa, le sorelle Fumo, la Danieli,Gleijeses accreditando la divisione tra “uomini d’amore” e “uomini di libertà” ed oggi è davvero incredibile come a decenni di distanza tutti noi contemporanei vi possiamo riconoscere all’istante gli stessi personaggi in commedia e lo stesso territoriodi tenzone per demagoghi d’ogni risma.

In “Il mistero di Bellavista”, allestito a furore di botteghino l’anno seguente, De Crescenzo abbozza risvolti giallo-comici (non per niente aveva sceneggiato prima del boom editoriale “La mazzetta” di Corbucci) anch’essi destinati a riaffiorare nelle fiction tv d’ultima generazione, fermo restando che una grande mano all’ingegnere la diedero il maggiore rilievo dato alla straripante Confalone e new entry intonate alla scanzonata progenie arboriana come Luotto, la Laurito, Allocca e Rutigliano. Mentre in “32 dicembre”, trasposto nell’88 dal trattatello Oi dialogoi, è ancora una volta generoso chiamando al proscenio schermico di tre bozzetti -forse peggiorati dal curioso supporto in sceneggiatura della Lidia Ravera postPorci con le ali– altri trasformisti senza rete ovvero non partoriti dagli asettici studi di via Teulada come il sublime Cannavale (Nastro d’argento per il migliore attore non protagonista), Allocca, Bianco e Iavarone. Peccato per la tardiva sortita di “Croce e delizia” (1995), un film inconsistente che ha nuociuto un po’ alla riconsiderazione della trilogia napolicentrico/bellavistiana. Caro Luciano tutto sommato anche il pubblico del cinema ti ha riconosciuto onestà, acutezza e bonomia e oggi anche chi non era nato racconta le tue storie, i tuoi apologhi e i tuoi paradigmi al di sopra delle stentoree ideologie come Pazzaglia divulgava a ciclo continuo i casi straordinari del fatidico cavalluccio. Per di più, se può farti un po’ piacere, Socrate ha finalmente esercitato il suo potere anche sull’incredulo critico dell’amato quotidiano della tua amata città.

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