Recensioni

Pubblicato il 9 Dicembre 2021 | da Valerio Caprara

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IN MORTE DI LINA WERTMULLER

Non è più tra noi la più combattiva, stakanovista e mordace esponente del nostro cinema. Nonostante un ultimo film da cancellare –“Peperoni ripieni e pesci in faccia”- era apparso emozionante il percorso onorifico partito dalla serata d’onore al San Carlo del 2015, rinforzato dall’omaggio del festival di Cannes con la proiezione della versione restaurata in 4K di “Pasqualino Settebellezze” e culminatonella cerimonia di Los Angeles corredata dalla fatidica stella impressa sulla Walk of Fame.
Non ci sarebbe niente di più ipocrita, però, che dedicarle il solito ritrattino a base di virtuali cuoricini che i media tendono a confezionare per le celebrities al momento dell’addio: sembra, infatti, che il giusto trasporto umano e l’indispensabile serenità di valutazioneobblighino a intonare salmodie che tramutano i trapassati in santini bravi, belli e buoni senza rendersi conto di renderli di fatto tutti eguali e tutti innocui. Arcangela Felice Assunta Wertmuller von ElggEspanol von Braucich (“eeh, ma io così me chiamo, mi porto dietro un po’ di eredità”) non ha, infatti, dovuto attendere il ferale exitus per guadagnarsi l’onore e il rispetto, ma è pur vero che la generazione di critici e cinefili post-Sessantotto non solo non l’ha mai amata, ma spesso l’ha avversata in campo aperto raggiungendo il culmine del sarcasmo nella celebre sequenza morettiana di “Io sono un autarchico”… In cui, com’è noto, Fabio Traversa informa l’egolatrico Nanni dell’assegnazione alla Wertmuller di una cattedra di cinema a Berkeley e quest’ultimo, dopo avere chiesto conferma che si tratti proprio della regista di “Mimì metalurgico”, “Travolti da un insolito destino” e “Pasqualino Settebellezze”, inizia a vomitare schiuma verde dalla bocca come Linda Blair in “L’esorcista”. Lei, l’irrefrenabile, si sarebbe forse accontentata di consolarsi con gli incassi e gli ingaggi, ma sembra che l’incauto Nanni volle strafare finendo col dovere incassare un uppercut leggendario: “A farmi arrabbiare non fu la gag, ma un suo gesto successivo. Lo incontrai ai margini di un festival, lo salutai ed essendo lui un gran cafone e un vero str…, neanche si voltò”. Il fatto è che mentre i film hanno suscitato reazioni ed emozioni contrapposte, sul suo carattere, diciamo, forte nessuno ha mai coltivato il minimo dubbio: se un big della critica italiana Tullio Kezich lo tramandò giocando sul cognome dello storico compagno Enrico Job (“Per stare vicino a Lina ci vuole la pazienza di Job”), Luciano De Crescenzo siccome insisteva sul set di “Sabato, domenica e lunedì” ad accompagnare le proprie battute col dito indice alzato se lo vide addentare dalla signora imbufalita.
Del resto il pubblico l’ha sempre seguita divertendosi un mondo con la sterminata messe di aneddoti messa in giro con maliziosa simpatia dai cinematografari romaneschi dalla lingua biforcuta (cfr. il nomignolo “frullato di brutta”), mentre adesso, per chiunque volesse riavvolgere il filo di una vita vissuta con sprezzo della forma, gioia di vivere e vigoroso amore per il cinema popolare e populista sono a disposizione due significativi sussidiari: l’autobiografia Tutto a posto niente in ordine pubblicata nel 2012 e il documentario di Valerio Ruiz “Dietro gli occhiali bianchi”. Tenendo per di più presente che il giudizio sul grado d’”artisticità” dei suoi film non ha ancora trovato, se mai lo troverà, letture impermeabili ai mutamenti del gusto e dell’approccio di pubblico e critica, non c’importa certo ricominciare a impallinarele commedie dai titoli interminabili che con la complicità del super talento di Giancarlo Giannini hanno creato un estratto dolceamaro debitore dal cinema di Germi (in primis “Divorzio all’italiana”e “Sedotta e abbandonata”) e conquistando in conseguenza del suo tratteggio eccessivo, viscerale, femminista senza precetti ideologici bensì di pelle, un’attenzione internazionale, con gli Usa in prima fila, che pochissimi colleghi nostrani possono vantare. Per quanto ci riguarda dopo avere ribadito la rilevanza di un filone che Lina, la cinica dal cuore d’oro, ha avuto il fegato e la forza di creare in proprio e rivalutato –senza untuosi pentimenti, ma con l’asettica lente dello storico- la provocatoria, trascinante vitalità di pochade disegnate sulla pellicola con la matita di un Grosz o, a essere più modesti e autarchici di un Fellini, come “Mimì metallurgico” e “Travolti da un insolito destinonon ci stancheremo di tornare alle origini, all’apprendistato su cui spesso si sorvola, ma che costituisce il suo vero tesoro professionale. Già aiuto regista di Fellini, infatti, esordì nel 1963 con “I basilischi”, un unicum d’insuperabile acume e lungimiranza che sbeffeggia la perenne circumnavigazione dell’ombelico e la grottesca ignoranza di un gruppetto di vitelloni del profondo Sud. Oggi, con l’incubo del politicamente corretto, sarebbe forse impossibile erigerlo a cult-movie; mentre, deogratias, la ex arcinemica tv ha guadagnato vari lasciapassare e nessuno ci punirà se confessiamo di amare alla follia “Il giornalino di Gian Burrasca”, la serie musical con la Pavone di cui la giovane ma già irriverente Lina fu non a caso autrice e regista.

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