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Pubblicato il 27 Novembre 2018 | da Valerio Caprara

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In morte di Bertolucci

Non è mai esistito un regista capace di riprodurre la profondità della vita e ripristinare la verità della Storia perché il cinema è l’arte suprema dell’inganno e della finzione, ma certo Bernardo Bertolucci è stato tra i pochissimi che ci sono andati vicini. E’ l’ora di rassegnarsi a una scomparsa che offusca lo sguardo, interrompe il flusso doloroso e insieme esaltante di un’autobiografia generazionale e rende più fragile la resistenza all’egemonia delle perniciose concezioni redentoristiche dell’arte, ma soprattutto è l’ora d’intraprendere una nuova, lunga e aspra battaglia contro chiunque sfodererà gli artigli per tramandare un identikit di comodo, il flash sbiadito di un artista impegnato come se ne vendono a bizzeffe al mercatino dell’usato ideologico. Non possiamo né vogliamo tirarci indietro: “Ultimo tango a Parigi”, uno dei film-faro della storia del cinema mondiale, uno shock che ha stravolto la percezione dell’eros “fondativo” della natura umana più in profondità dei saggi di Marcuse e rovesciato la coazione a ripetere dei sessantottini fuggiaschi dall’involuzione liberticida degli ideali della sinistra, se fosse uscito in questi mesi sarebbe mandato al rogo dalle vestali sessuofobiche del #MeToo piuttosto che da magistrati allora ritenuti per definizione fascisti. Intendiamoci, all’epoca l’attacco a un film così intriso di romanticismo decadente, orgasmico, irriscattabile, fu bipartisan: «I pornofilm piacciono ai nevrotici e agli immaturi», argomentava su “Gente” Cesare Musatti,Epoca” scriveva di «ragazze involgarite dalla libertà sessuale», Goffredo Fofi gli preferiva la parodia di Franchi e Ingrassia “Ultimo tango a Zagarol”, mentre “il Borghese” usava espressioni da trivio per ascrivere al libertinismo comunista la sconcezza della scena di sodomia. Inoltre seppure consideriamo il primo atto di “Novecento” un ingranaggio stridente ma indispensabile per comprendere l’acme della lotta disperata del giovane Bernardo contro i propri nodi edipici e le relative contraddizioni di classe, è impossibile non ribellarsi all’indulgenza riservata alla catastrofica seconda parte, in cui il dissidio tra gli imperativi del “realismo socialista” imposti dall’auto-coercizione psicanalitica e la fascinazione prepotente di matrice hollywoodiana inabissa la messinscena in un delirio melò più retorico e populista che brechtiano o maoista.

Del resto non si era mai vista e sarà difficile vedere nuovamente all’opera una personalità altrettanto esposta alle mareggiate della libertà dell’ispirazione: nutrito dalla raffinata poesia paterna, devoto al moloch verdiano, apostolo autarchico della Nouvelle Vague, intellettuale poliglotta non privo di tratti dandystici, l’autore più carismatico della generazione di cineasti affermatasi all’alba dei Sessanta tramanda una filmografia ridotta –meno di venti lungometraggi in quasi cinquant’anni di carriera- eppure svariante e complessa come non lo sono state neppure quelle dei padri nobili del dopoguerra. Il diligente calco pasoliniano di “La commare secca” fu seguito, infatti, da un film tanto tormentato quanto indifeso come “Prima della rivoluzione” che, proprio a causa dell’overdose dei dilemmi politici che fanno corona alla rievocazione del ritorno in famiglia di un giovane borghese parmense, subì lapidazioni sommarie nei cineclub frequentati dal movimento studentesco. Del resto l’estrema sensibilità, accompagnata dall’inconfondibile tonalità di voce melodiosa e arrotata, produce a sorpresa in Bertolucci una fortificazione a suo modo provocatoria: il sofisticato intreccio dostoevskiano di “Partner” (1968), per esempio, non si sposa certo con gli umori dominanti nella classe intellettuale dell’anno di uscita. Tanto è vero che l’ingresso nella decade che frantumerà progressivamente quegli slanci palingenetici –peraltro in seguito recuperati in forma di culto pagano della giovinezza nel penultimo titolo “The Dreamers”- è segnato dal successo non più di nicchia di “Il conformista”, uno dei suoi capolavori che traduce il romanzo di Moravia in un elegante, corrusco e spietato trattato sulle pulsioni erotiche represse destinate a insediarsi nel tessuto molle della “normalità” borghese sottomessa al fascismo. “Ultimo tango” , che secondo noi non merita il consumistico marchio di film scandalo degli anni Settanta ma, al contrario, rappresenta l’alternativa alla tentazione delle brutalità “rivoluzionarie” contenutistiche, esalta il conflitto tra eros e thanatos come il cinema in fondo è sempre votato a fare rendendovi ancora oggi palese il corpo-a-corpo –nel senso stretto dell’espressione- tra le teorizzazioni di Freud e Bataille che incombono nell’autocoscienza del trentaduenne kamikaze della cinepresa e la selvaggia spinta dei sensi che dilaga nella plasticità degli amplessi tra Brando e la Schneider, le pastose luci di Storaro e i singulti devastanti della colonna sonora di Gato Barbieri. Disorientati da “Novecento”, “La luna” e “La tragedia di un uomo ridicolo”, a metà degli Ottanta anche gli adepti più malmostosi e pedanti stavano peraltro per inebriarsi al cospetto delle oscarizzate magnificenze di “L’ultimo imperatore” e “Il tè nel deserto”, antidoto definitivo alla volgare equazione dell’Arte inconciliabile col “commercio”. Eppure, caro maestro, se c’è una sequenza che oggi spezza il cuore per la tua assenza è quella di Liv Tyler che canta a squarciagola “Rock Star” di Courtney Love  nel piccolo, meraviglioso racconto di formazione “Io ballo da sola”.

 

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