Pubblicato il 20 Febbraio 2017 | da Valerio Caprara
0In memoria di Pasquale Squitieri
Non gli hanno mai perdonato niente e la disparità del metro di giudizio esercitato nei confronti dei suoi film salta agli occhi anche al più accanito dei nemici. Ma il fatto è che Pasquale Squitieri, morto settantottenne ieri notte a Roma per le conseguenze di assortite e gravi malattie, non avrebbe chiesto il perdono neppure a domineddio e tantomeno al microcosmo del cinema italiano di cui ha fatto parte e tuttavia ha sfidato nel corso dell’intera vita. Se è stato definito l’escluso meno docile del ramo, del resto, è proprio perché dal remoto 1969 dell’esordio fino al 2014 della cupa parabola distopica di “L’altro Adamo” l’uomo prim’ancora del professionista ha lottato senza moderare i termini, retrocedere d’un passo o smussare gli spigoli contro un’immagine fuorviante e sbrigativa di se stesso che pure contribuiva paradossalmente a modellare. In questo senso si capisce perché un combattente inquieto, impetuoso e irrefrenabile, mutevole di carattere a causa del vortice tumultuoso dei sentimenti (di cui è testimone commosso chi gli è stato amico come il sottoscritto), sia stato tramandato come un raro esemplare di “cane sciolto”; corredato, però, del collare di un ghiotto identikit di facinoroso, sciupafemmine, politico fascista o carcerato che ha fatto comunella con mafiosi e brigatisti. Etichette che hanno pesato e pesano se ci s’interroga sulla limitata considerazione ottenuta in campo critico, anche perché neppure su tale specifico versante molti sono in grado di motivare chiaramente perché certe soluzioni espressive ritenute urlate, retoriche o grezze vengano dai medesimi esegeti e opinionisti accettate, lodate o patrocinate per autori e film omologhi o affini.
Nato a Napoli il 27 novembre 1938 in una delle 18 stanze di un appartamento al primo piano d’un bel palazzo vanvitelliano nel Rione Sanità, Pasquale è il primogenito di Giulia Lezzi e dell’autorevole segretario dell’Ordine degli avvocati Mario, nonché il fratello, che sarà sempre ammirato e supportato nei momenti radiosi e quelli amari della vita, di Maria Rosaria e Nicola, inconfondibili figure di una napoletanità operosa e dabbene di cui oggi s’è perduto lo stampo. Giovane esuberante e generoso si sposa giovanissimo con la studentessa diciottenne Silvana Filotico, da cui avrà i figli Vittoria, Paola e Mario, tutti e tre destinati a una brillante carriera in stretta comunione artistica col padre. Campione di scherma, boxeur e rugbista amatoriale, laureato in legge a ventuno anni e collaboratore della terza pagina di “Il Mattino” diretto da Mario Stefanile, si trasferisce a Roma per entrare in redazione al “Paese Sera”. Impiegato per qualche anno al Banco di Napoli, decide di dedicarsi definitivamente allo spettacolo grazie alla frequentazione di Giannini, Visconti, Zavattini e Leone, ma a produrgli l’opera prima, il pamphlet sessantottino “Io e Dio” (’69), è il suo faro artistico De Sica. Subito dopo realizza due western con lo pseudonimo di William Redford prima d’inanellare una serie di titoli che lo rendono autore a tutti gli effetti e, in particolare, pionieristico specialista del filone (oggi diventato, nel bene e nel male di moda) gangsteristico e d’azione all’italiana: da “Camorra” a “I guappi”, da “L’ambizioso” a “Il prefetto di ferro”, da “L’arma” a “Corleone” impreziositi dalle performance di attori come Pellegrin e Vanel, Cardinale e Nero, Gemma e Sastri. Gli anni Settanta vengono, così, marcati dalla cifra ad alta presa spettacolare e dall’impegno civile di questo regista napoletano non napoletanista, sempre fuori dal coro e persino ingenuamente trascinato dalla forza, la volontà e la rabbia di un idealismo purtroppo per lui non schierato, manicheo o di servizio partitico.
Più che analizzare, infatti, titoli sanguigni e non di rado (come nel caso di “I guappi”) ragguardevoli per il riuscito connubio d’influenze che vanno dalla letteratura verista alla sceneggiata, dal cinema di Rosi, Damiani e Visconti a quello noir hollywoodiano, i media sono fatalmente attratti dalle sue avventure e disavventure: arrestato e poi assolto per la rissa col poliziotto che ha insultato la collega Guarnieri, arrestato e incarcerato nell’81 per cinque mesi per aver fatto pagare quindici anni prima alla banca un assegno risultato falso, quando inizia una lunga e appassionata relazione con Claudia Cardinale (da cui ha avuto l’amata figlia Claudine) la dovrà scontare in un crudele ed inesausto calvario di accuse, provocazioni e maldicenze. Al cinema e in tv continua a firmare film di diseguale ma consistente caratura, passando dal manierismo di “Razza selvaggia” e “Russicum”, “Il colore dell’odio” e “Li chiamarono… briganti!” alle incursioni nei gangli cancerosi della storia patria di “Claretta” e “Gli invisibili” o nelle laceranti problematiche di una società falsamente liberata di “Atto di dolore” e “L’avvocato De Gregorio”. Già simpatizzante degli extraparlamentari rossi e vicino a leader come Scalzone e Balestrini, è eletto senatore per Alleanza Nazionale nel ’94 e infine s’iscrive al Partito Radicale nel ’96: qualunque cosa si possa pensare di lui, però, è assolutamente certo e vale come epigrafe il fatto che nella vita non ha mai agito per calcolo personale, demagogia ruffiana e men che mai astenia morale.