Pubblicato il 12 Luglio 2017 | da Valerio Caprara
0In memoria di Elsa
“Nessun rimpianto. Certo mi piacerebbe essere ancora a cena con Orson Welles, parlare con John Wayne, salutare John Kennedy in pigiama sulla porta di una casa di Palm Springs all’alba, ma non si può fare. Il passato non torna. E non mi dispero”. E’ stato un piacere conoscere Elsa Martinelli, scomparsa ieri nella sua casa romana a ottantadue anni, e un onore usufruire del suo garbato e incuriosito consenso: tra i punti fermi tramandati da un brillante curriculum di attrice, modella, stilista, giornalista, protagonista del jet set non risultano, del resto, preponderanti quelli del rapporto privilegiato con i critici o dell’attenzione dedicatale dalle storie del cinema. La sua personalità, peraltro, irradiava un fascino speciale per ragioni forse più profonde: fotogenica, elegante, raffinata, colta e non a caso soprannominata la Audrey Hepburn nostrana, ha visto riconosciute molte di queste vocazioni diverse e ha perseguito con affabile testardaggine tanto gli obiettivi professionali quanto quelli esistenziali, ma soprattutto ha impresso la sua impronta più duratura al di là della labile superficie mediatica incarnando una delle storie esemplari dell’Italian Dream del dopoguerra.
Nata a Grosseto nel gennaio del 1935 settima di otto figli e trasferitasi a nove anni insieme all’intera tribù familiare a Roma, dove il padre ex contadino era stato assunto come usciere delle Ferrovie, studia sino alla quinta elementare, ma poi sceglie di darsi da fare lavorando come commessa o cassiera. Il fisico longilineo, l’eleganza naturale distribuita in un metro e 76 d’altezza e lo spiazzante sex-appeal non possono, peraltro, che predisporle un destino glamour: entrata in una boutique di via Frattina per comprare una gonna incontra Roberto Capucci che, invaghitosene all’istante, l’ingaggia come indossatrice e la lancia nell’alta moda come icona del nuovo tipo di fisicità (l’ombelico fuori dai jeans, la frangetta, il trucco quasi inesistente) antitetico ai crismi della bellezza femminile dell’epoca. Anche l’ingresso nel cinema avviene in modo fiabesco e in un percorso contrario a quello tipico di tante illustre colleghe: dopo avere recitato in “L’uomo e il diavolo” di Autant-Lara (1954), appare a sorpresa sulla copertina di “Life”, Kirk Douglas la nota, la impone al regista De Toth e la vuole a tutti costi accanto a sé sul set dell’ottimo western “Il cacciatore di indiani”. Ormai sbocciata al sole di Hollywood, la Martinelli può proseguire una carriera che alla fine viaggerà su una settantina di titoli: senza rinunciare alle sue caratteristiche indelebili – il volto da dea androgina, il sorriso enigmatico, la voce roca e sensuale alla Dietrich, il portamento altero e le gambe interminabili- e alternando in scena e in privato atteggiamenti da vamp e grinta da maschiaccio, travalica i ghetti dell’Italietta approssimata degli anni Cinquanta e di quella sfrenata dei Sessanta dimostrandosi a suo agio in film che, come accadeva in quei tempi benedetti per la potenza mitopoietica della settima arte, sono firmati da registi della caratura più eclettica e offrono allo spettatore una gamma variegata d’immedesimazione “alta” o “bassa” che dir si voglia. Da “Donatella” di Monicelli, che le fa vincere uno dei rari premi togati come migliore attrice al festival di Berlino del 1956, a “La risaia” di Matarazzo che fa il verso pop al neorealistico “Riso amaro”; dal disimpegnato “Costa Azzurra” all’impegnato “La notte brava” di Bolognini; dallo struggente “Un amore a Roma” di Risi in licenza poetica dalla commedia all’instant movie ingenuamente osé “I piaceri del sabato notte” di D’Anza; da prodotti internazionali di giustificata ambizione come “Il sangue e la rosa” di Vadim, “Hatari!” del grande Hawks, “”Il grande safari” di Karlson e Hathaway, “La calda pelle” di Aurel e soprattutto “Il processo” (1962) di Welles ai ruoli più che dignitosamente eseguiti in film italiani provocatori e fuori standard come “La decima vittima” di Petri, “L’amore attraverso i secoli” di Bolognini, “L’amica” di Lattuada e “Una sull’altra” del sabotatore misconosciuto Lucio Fulci…
Nell’autobiografia del ’95 Sono come sono. Dalla Dolce vita e ritorno non sforna scoop, ma spicca per l’insolita credibilità: sposata col conte Franco Mancinelli da cui nel 1958 ha l’unica figlia Cristiana, divorziata e risposatasi col fotografo e designer Willy Rizzo, rievoca con inconfondibili tonalità ironiche e autoironiche viaggi esotici, party mondani, rentrée con o senza premi in festival internazionali, allude senza remore a un numero imprecisato di serate di champagne e passione con spasimanti del calibro di Cooper e Sinatra, sottolinea come la sete di novità la porta a distaccarsi precocemente dal cinema per incidere un disco, cimentarsi come presentatrice al festival di Sanremo, scrivere reportage non banali, concedersi alla tv o esibirsi in cammei di lusso in fiction di grande audience. Nel 2005 riconquista un nuovo pubblico interpretando una perfida duchessa nella miniserie tv “Orgoglio”: ma è una performance all’acqua di rose paragonandola alle soavi stilettate che ha inferto a Bardot, De Laurentiis, Monicelli, Rosi e finanche Craxi nelle ultime interviste fedeli al suo stile di tagliente sincerità.