Recensioni

Pubblicato il 2 Settembre 2019 | da Valerio Caprara

4

Il Sindaco del Rione Sanità

Il Sindaco del Rione Sanità Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario:

3.8


Le due Napoli –anche se com’è noto c’è chi ne vede o se ne inventa altre mille e tre- si fronteggiano sulla panoplia filmica che contrassegna il miglior titolo di Martone insieme a “Morte di un matematico napoletano”. Quella vivida e perbene e quella sordida e criminale, s’intende, delineate nella commedia di De Filippo “Il sindaco del rione Sanità” che il regista ha già allestito due anni orsono al teatro Nest di San Giovanni a Teduccio, ma che adesso si confrontano coraggiosamente con la congerie di fiction di stampo affine e variabile qualità da sempre presente nell’immaginario nazionale, ma ultimamente dilatatasi in numeri esponenziali. Lo specifico adattamento firmato dallo stesso Martone in simbiosi con la moglie Ippolita di Majo conserva un saldo impianto teatrale, ma è in grado –primo e importante merito- di usare le potenzialità della macchina da presa per muoversi (persino freneticamente) in lungo e in largo all’interno delle motivazioni dei personaggi, anziché utilizzarle per corredare l’azione di superflui e protettivi svolazzi. Non essendo un granché interessati a istituire un confronto a colpi di bilancino filologico tra il testo datato 1960 –che tra l’altro, per quello che conta, non ci è mai apparso tra quelli memorabili del sommo Eduardo- e la doppia versione martoniana, aggiungiamo che le laceranti tematiche del sempiterno conflitto ruotano nel film attorno a un perno drammaturgico ineludibile e fondamentale: per “amare” davvero la città, ma sarebbe meglio dire per tentare di comprenderla e viverla con spirito libero, è necessario sbarazzarsi dei putipù propagandistici, degli scetavaiasse ideologici e dei triccheballacche identitari. Solo guardando sino in fondo come in questo caso i suoi errori/orrori, insomma, si può essere autorizzati a tramandarla sul piano artistico.
Inutile dettagliare la trama che si svolge ai giorni nostri in parte nella villa alle pendici del Vesuvio dove il quarantenne boss Barracano amministra la giustizia al posto dello Stato e in parte nell’appartamento nel cuore della Sanità che costituisce il suo bacino antropologico originario: il ribollire occulto del vulcano rappresenta, in effetti, il trait-d’union tra l’intrico di arcaiche ignoranze, violente prevaricazioni e illegalità consolidate e la popolare quotidianità del quartiere “sedato” dalla presunta lungimiranza del protagonista, non a caso supportato non solo da ambigui familiari e guaglioni dalla pistola facile, ma anche dal dottore di buone inclinazioni e onesta famiglia costretto da tempo a vivergli affianco. Perché, infine, ciò che conta e che resta è soprattutto l’amalgama e l’efficacia del cast: dall’ipnotico, felino Francesco Di Leva, ormai una certezza di una scuola terribilmente autorevole come quella nostrana a Massimiliano Gallo, nuovamente al massimo di una bravura che appare a volte scolpita anziché recitata; da Roberto De Francesco gonfio di vile amarezza e rabbia repressa nell’incarnarsi nella figura cruciale del borghese contaminato a Adriano Pantaleo, Daniela Ioia, Giuseppe Gaudino e tante altre pedine loro malgrado di un teatrino sociale pervertito e disgregato… Se sprecarsi nelle lodi potrebbe evocare l’abituale critica di servizio, è sufficiente garantire che il rimpallo dei dialoghi, le espressioni degli occhi e dei corpi, il balletto sincronizzato dei movimenti nella geometria dell’insieme e del particolare gli spettatori se li ritroveranno incollati negli occhi e conficcati nell’animo.

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