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Pubblicato il 21 Febbraio 2022 | da Valerio Caprara

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Il ritorno di “Il padrino”

Anche decidendo di smetterla con termini abusati come capolavoro, mitico, pietra miliare, straordinario, ci sono film che se li portano addosso e non si possono scollare. Un chiaro riscontro arriva dalla programmazione in sala dal 28 febbraio al 2 marzo della trilogia di Francis Ford Coppola “Il Padrino” (“The Godfather”) in un’edizione meticolosamente restaurata per celebrare il cinquantennale della prima uscita -il 24 marzo 1972 negli Usa e il 14 settembre in Italia- in sinergia tra la Paramount e la casa di produzione del regista American Zoetrope. I dettagli tecnici sono impressionanti: tre anni di lavoro supervisionati dallo stesso Coppola, circa 300 cartoni di pellicola esaminati per trovare la migliore risoluzione possibile per ogni fotogramma originale, una rigorosa color correction affinché gli enormemente progrediti strumenti ad alta gamma dinamica fossero fedeli alle scelte artistiche del regista e del direttore della fotografia Gordon Willis (che usò spesso chiaroscuri molto contrastati), restaurate le tracce mono originali della colonna sonora delle parti I e II a corredo dell’audio 5.1 già inserito dal restauro del 2007 curato dallo storico del cinema Robert Harris. A proposito della saga è ovviamente superfluo tornare alla trama diramatasi a furor di pubblico in altri due capitoli datati 1974 e 1990, al best seller di Mario Puzo da cui è tratta o al rango di cult movie consolidatosi nel tempo. È più utile ricordare come la narrazione del dominio della Mafia estesosi al di là e al di qua dell’Oceano per circa mezzo secolo, scandita dal montaggio di William Reynolds e Peter Zinner che alterna prolungate digressioni nella vita e gli ambienti degli immigrati italoamericani a inaudite esplosioni di ferocia stragista, non solo s’ispiri a una tragedia classica come è stato ripetuto a iosa bensì operi la sua autopsia. Appunto per questo sembra che “dissezioni” le tappe dell’ascesa e caduta della famiglia Corleone via via evidenziandone la rigenerazione ciclica, la complicità con il capitalismo più famelico e spregiudicato, la crisi d’identità causata dall’instabilità societaria, gli imperativi categorici della piramide patriarcale, la lotta politica caratterizzata dalle stesse dinamiche vigenti nell’impero criminale.

Agli Oscar vinti e le numerose nomination, gli infiniti  riconoscimenti internazionali, i primati assegnati dalle classifiche più prestigiose e gli incassi stratosferici (finora oltre 3 miliardi di dollari) si sono aggiunte nel tempo le ricostruzioni della travagliatissima genesi: non era Coppola, allora giovane cineasta con fama di dissipatore, la prima scelta della Paramount che decise di metterlo sotto contratto solo dopo i rifiuti di molti registi celebri; l’ingaggio di Brando, considerato ormai in declino e afflitto da un carattere insopportabile, fu causa di discussioni estenuanti; ancora più duro fu lo scontro con il produttore Robert Evans che fu sul punto di licenziarlo per avere preteso il semi-sconosciuto Al Pacino per il ruolo chiave di Michael Corleone; altro caso, il budget sforato da Coppola per l’ostinazione di girare a New York, anziché in location più abbordabili dal punto di vista finanziario e organizzativo. Decisivi poi risultarono il cast principale e quelli appena ritoccati dei sequel: non solo Brando, ma praticamente tutti gli altri, da Duvall a De Niro, dalla Shire a Caan, dalla Keaton allo stesso Pacino erano destinati a diventare delle star.

Per completare il quadro si può annotare che la critica americana non fu unanime negli elogi anche se la stragrande maggioranza dei big come Kael, Turan, Canby e Ebert ne parlò in termini positivi e solo Sarris lo stroncò su “Village Voice”. Anche nella cinefila Francia la sottovalutazione di un’opera così autoriale e insieme popolare risultò minoritaria e l’orientamento di riconoscerne la rilevanza e la portata accomunò testate politicamente distanti, da quelle cattoliche a quelle golliste e al rampante quotidiano della borghesia gauchiste “Libération”. Più frastagliata e guardinga fu la reazione in Italia dove fu eretta una sorta di barriera ostile dai recensori cresciuti sulla scia delle battaglie neorealiste, mentre la generazione sessantottina formatasi con la leadership culturale di Fofi (a cui si deve il concetto della visione coppoliana “più distante che affascinata”) lo valutò con attenzione e ammirazione.

La riedizione, infine, potrebbe riattizzare il fuoco dell’antica, ma sempre arcigna polemica sui danni che avrebbe arrecato “Il Padrino” all’immaginario collettivo a causa della dimensione omerica conferita ai criminali, all’agnostica presa d’atto dei ribaltamenti tra Bene e Male e all’attribuzione di un ambiguo senso di lealtà alle famiglie mafiose della Grande Mela. La migliore risposta a quest’ottica miope l’ha data il prosieguo del genere gangsteristico che in tutto il mondo dopo “Il Padrino” ha modificato i suoi autori di punta, il suo piglio stilistico, i suoi tabù morali e le sfaccettature dei personaggi e dei carismatici attori che l’hanno via via incarnati. Basta riferirsi alle filmografie di Scorsese, De Palma, Cimino, Mann, Ferrara, Coen e Tarantino, ma anche alle italiche incursioni dei Rosi, Petri e Damiani –modelli più o meno dichiarati delle serie tv sciocca-benpensanti alla “Gomorra” e “Suburra”- e ovviamente all’exploit fuori catalogo di “C’era una volta in America”, per non parlare dei Takeshi Kitano, John Woo, Tsui Hark e gli altri maestri venuti dall’Oriente.       

 

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