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Pubblicato il 10 Dicembre 2021 | da Valerio Caprara

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I FRATELLI DE FILIPPO

De Filippo, storia e leggenda. Anche sullo schermo non ci bastano mai, ma il motivo non è lo stesso usato dai napoletanisti da parata: “I fratelli De Filippo” di Sergio Rubini, che prima dell’uscita nelle sale viene presentato nel galà di stasera al San Carlo, rimette in gioco conflitti e rapporti avvelenati,“mette il bisturi”, come scrisse in un’altra occasione l’italianista Matteo Palumbo,“nel tessuto vivo, lacerato nella sua unità minima proprio dove la famiglia vienerappresentata come bene supremo”. Il film, mettendo da parte qualche imbarazzante sovrapposizione con l’affine “Qui rido io”, ricostruisce, infatti, il percorso di assimilazione, combustione ed esplosione del “defilippismo”che in un’altalena di duri impatti esistenziali, rabbie e caparbietà prima sembrano accreditare, poi distruggono e infine rendono insolubile una visione egualitaria, retorica e buonista del talento.
Insieme ai co-sceneggiatori Carla Cavallucci e Angelo Pasquini e grazie alla coproduzione attrezzata e motivata di Pepito, Nuovo Teatro e RS productions in collaborazione con Rai Cinema, Rubini predispone, così, un album retrospettivo che ha le sue doti nella puntualità dei riferimenti storici anni Trenta, la fluidità dei dialoghi e l’evidente dedizione ottenuta dal mix tra esperti e matricole degli attori e i suoi difetti nell’eccessiva e inutile lunghezza, certe insistenze sui versanti macchiettistici e l’andatura, diremmo quasi la concezione autolimitante, tipica delle (buone) fiction tv. Cercando l’amalgama tra la tradizione del teatro brillante ottocentesco, la rivoluzione scarpettiana e ciò che Rubini considera –secondo noi a torto- un’anticipazione del Neorealismo, “I fratelli De Filippo” riesce a ergersi al di sopra dell’ordinarietà soprattutto quando si divincola dal suddetto album soverchiato, gremito, obeso di dettagli per evidenziare, invece, le profonde ferite psicologiche e morali causate dalla ruota dei destini collettivi e individuali sotto forma di compromessi, umiliazioni e rivincite.
Il maxi flashback si configura, in effetti, come pretende un classico biopic all’italiana, in cui il narratore incrocia diligentemente le esibizioni di Eduardo, Peppino e Titina sul palcoscenico talvolta assai godibili (pensiamo a quella da applausi, pour cause, a scena aperta in cui l’Eduardo di Mario Autore ruba la scena al Vincenzo di Biagio Izzo, il figlio naturale di Scarpetta: quasi il corrispettivo simbolico sullo schermo di un gol di Maradona nello stadio) con le fasi dell’infanzia e l’adolescenza caratterizzate da aneddotiche un po’ flebili e anche alcuni vuoti, come quello del ritorno a casa di Eduardo al termine della sbrigativa trasferta milanese. Inseguendo la sovrabbondante struttura narrativa di Rubini è possibile, in ogni caso, apprezzare la crescita dei tre futuri maghi del palcoscenico con la bella e giovane madre, mentre l’ipocrisia del tempo occulta il padre naturale nella figura dello “Zio” (Giancarlo Giannini, bravissimo come sempre e fortunatamente senza tentazioni di gareggiare col Servillo di Martone) e destina tutta la sua cospicua eredità ai figli legittimi. Il Teatro Umoristico De Filippo che debutta il 25 dicembre 1931 con “Natale in casa Cupiello” come avanspettacolo al Teatro Kursaal funziona, insomma, da prologo e insieme da epilogo: l’egocentrismo notorio di Eduardo contrapposto alla prudenza di Peppino (trasformatasi in vigoroso rancore nel famoso memoriale “Una famiglia difficile”) non è riuscito ad essere mediato né dalle amorevoli speranze della mamma, né dalla personalità più equilibrata di Titina. Le icone della napoletanità, si può pensare a luci riaccese, così spesso ridotte a poltiglie museali e polverose si riscoprono ancora una volta in questo film generoso e imperfettoquelle di una città-mondo che vive malgrado i suoi stereotipi;i nuovi corpi, le nuove conoscenze, i nuovi incubi e le nuove ricomposizioni, i nuovi generi e toni, le radici, insomma, che si estirpano e poi rinascono da sole non hanno impedito che al fenomeno s’adatti, giusta ancora un’intuizione di Palumbo, la definizione di classico divulgata da Ezra Pound: un’opera nuova che non cessa di essere nuova.

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